Primo Movimento
Fabrizio, nel suo commento al mio secondo post, parlava di serendipity, lo scoprire, cioè, una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Anche se Fabrizio si è servito di questo termine, commentando la coincidenza dello slittamento della data del mio concerto, apparentemente casuale, con l’anniversario della morte del mio maestro Zadra, vorrei estendere il significato della parola “serendipity” per raccontare il lavoro che ogni artista dovrebbe compiere, per creare le condizioni perché questo evento possa accadere.
Quando sto per affrontare l’esecuzione pubblica di un brano al pianoforte, la forma di quell’opera ancora non esiste. Può nascere ogni volta di nuovo, ma non è detto che sia così, perché la forma del brano non coincide con la semplice esecuzione, anche corretta, di tutti i suoi suoni.
Arietta (1/2)
Se, infatti, io comincio a suonare con l’ansia di colui che vuole realizzare una precisa idea, uno schema mentale, l’idea che mi sono fatto del brano, studiandolo a casa, allora inizio solo una battaglia. Un conflitto in cui l’unico sicuro perdente è la musica.
Per quanto importante sia l’immagine che mi posso costruire del brano musicale, non deve diventare un simulacro da sostituire alla vera esperienza musicale.
Il pianoforte in sala è molto diverso da quello che ho a casa, ma, anche se portassi il mio strumento, questo lo percepirei completamente diverso da come suona in casa. Cambiando l’acustica, infatti, non solo cambierebbe il suo suono, ma anche la percezione di corrispondenza tra il suono e l’affondo dei tasti.
Che fare allora? Accettare la sfida, combattendo e piegando lo strumento e l’acustica alle proprie certezze, o allentare le proprie difese e rimanere in “ascolto”. Ma in ascolto di che, se abbiamo già detto che il brano ancora non esiste e che l’idea che ne abbiamo, non è una garanzia di soluzione al problema.
Da Sergiu Celibidache, un grande direttore d’orchestra con cui ho studiato, ho imparato che quello che conta in musica non sono i suoni, di per sé, ma le relazioni che tra questi si instaurano, volta per volta.
E queste relazioni devono tener conto, non solo delle altezze, e delle durate (per intenderci di tutto ciò che è scritto sullo spartito), ma anche del particolare suono che lo strumento produce in quel contesto, quindi dell’acustica della sala, che varia col variare dell’ampiezza, della sua forma e del numero degli spettatori che la riempiono.
Essere in ascolto, dunque, significa ritrovare quella condizione di silenzio interiore, la Coscienza pura, come la chiamava Celibidache, che è l’unico presupposto, la condizione originaria attraverso la quale siamo in grado di mettere in relazione i suoni fra loro, trovando e lasciando emergere, nell’adesso, i necessari rapporti di priorità.
È così che troviamo ciò di cui non conoscevamo l’esistenza, perché ogni esecuzione, se autentica, ci regala un’esperienza unica e irripetibile, un nuovo caso di serendipity.
Non è così anche nella vita e nei rapporti interpersonali?
Arietta (2/2)
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