Archives for 2009
Produci, consuma, crepa ovvero: tecnologia delle comunicazioni ed evoluzione umana
Si sente da più parti dire che la vita, a tutti i livelli dell’umano, si è fatta insostenibile. Questo “senso comune” è particolarmente rilevante per noi dei gruppi Darsi Pace che, muovendo proprio dalla varia fenomenologia dell’insostenibilità, tentiamo di risalire alle cause, ai motivi e ai moventi del non più sostenibile, che affetta di sé le esistenze nostre e altrui.
Alcuni di questi moventi sono chiaramente interni, hanno cioè a che fare con le nostre biografie, le nostre storie e le specifiche ferite che, una ad una, vanno risolte. Questo è il principale scopo del nostro lavoro nei gruppi. Altri moventi sono invece esterni, e corrispondono a quelle distorsioni generali, quelle forme di nevrosi collettive che abbiamo generato come società, e a cui ciascuno, anche inavvertitamente, dà giorno per giorno il suo contributo. Queste distorsioni sistemiche, strutturali potremmo dire, sono il bersaglio del lavoro che come associazione Darsi Pace intendiamo svolgere, da un lato spezzando con esse sul piano individuale ogni genere di alleanza, e dall’altro offrendo a tutti uno spazio di elaborazione di soluzioni comuni, anche culturali, al frangente epocale che ci tocca di vivere. Partendo da una sana critica dell’esistente. È quanto mi prefiggo ora di fare, analizzando un caso a me molto vicino: il mio quotidiano.
Osservando il mio stile di vita in modo, ho potuto costatare tutta una serie di abitudini molto singolari, che contraddistinguono il mio modo di lavorare e vivere da quello che fu il modo delle generazioni passate. Ecco ciò che su un piano molto fenomenico ho rilevato. Sulla base di una stima al ribasso, ho calcolato che ogni giorno ricevo tra le 30 e le 40 mail per motivi di lavoro; tra le 20 e le 30 mail tra contatti generici e contatti personali di amici, conoscenti e via dicendo. Totale: fino a 70 mail al giorno, festivi inclusi. Ho scorporato dal calcolo lo spam puro, che alcuni efficaci programmi mi aiutano a gestire. Se malauguratamente per un giorno non ho accesso al computer, il giorno successivo le mail saranno diventate 140, quindi 210 e così via.
Poi c’è il capitolo telefono cellulare, vero feticcio collettivo dell’onnireperibilità, del lavoro smart, dell’interconnessione pervasiva e totale a cui tutti oggi siamo assoggettati. Ebbene, io ricevo tra le 20 e le 25 telefonate di lavoro al giorno, circa la metà partono invece dal mio cellulare verso altri contatti di lavoro. Il totale del tempo medio che trascorro ogni giorno al cellulare è di due ore circa. Si aggiungono quindi i contatti personali di amici e conoscenti, che chiamano per un saluto o una chiacchierata e, last but not least, gli sms, sia privati che di lavoro a cui spesso è necessario rispondere immediatamente. Quando torno a casa, tra le 19.00 e le 19.30, ha inizio la teoria delle telefonate parentali: madri, padri, zii e altri cari, ciascuno desideroso di avere notizie, scambiare affetto, dare e ricevere conforto e attenzione. Di solito ricevo anche almeno una telefonata da qualche malcapitato operatore di call center che opera in outbound, il quale mi contatta per propormi pacchetti e offerte commerciali della natura più diversa.
È del tutto evidente che, in quanto homo sapiens fermo allo stadio evolutivo raggiunto nel neolitico, sono sprovvisto delle più elementari qualità necessarie a far fronte a una simile tempesta mediatica. Non sono in grado di gestire il sistema di aspettative che si muove attorno a me se non forzando mascheramenti e strutture difensive sostanzialmente arcaiche e infantili. Come me, credo la gran parte delle persone che conducono lo stesso mio stile di vita, e che vedo oscillare nelle loro relazioni tra un’aggressività nevrotica e un ritiro interiore di tipo narcisistico. Preciso che non ho particolari responsabilità pubbliche e non occupo posizioni di potere; sono dunque portato a credere che quanto mi capita abbia un carattere di sostanziale medietà. Nel caso, poniamo, di un politico tutto ciò credo vada elevato a potenza di 10. Basterebbe questo a spiegare, se non giustificare, il livello patologico raggiunto dalle nostre classi dirigenti, che oggi ci scandalizza particolarmente, perché si esprime in sfrenatezza dei costumi, degrado morale e altre forme di disordini del comportamento. Io credo che le loro distorsioni siano sintomi, soltanto sintomi, e che certe loro patologie presuppongano una fisiologia che è, purtroppo, comune.
E dunque? I dunque credo siano perlomeno due:
-
dobbiamo tutti e ciascuno sforzarci di riportare “il mondo a quote più normali”, come cantava Battiato in quella splendida canzone che è Povera Patria. Non si può, semplicemente non si può forzare al massimo quelli che sono limiti fisici e fisiologici nella gestione delle relazioni umane. Io credo che una spiritualità compiuta e incarnata debba aiutarci anche a intraprendere sentieri di sano realismo, a rispettare noi stessi e la nostra corporeità, a prendere cognizione del tempo e dello spazio, a tenere in conto i nostri bisogni e a non violentarci “senza ragione”. Senza ragione, cioè in ultima analisi nichilista, è quella ideologia strisciante – la sola ideologia sopravvissuta in Occidente – che si esprime nel motto: Produci Consuma Crepa. È una spirale particolarmente afflittiva, che tende ad avvitarsi verso il basso, che tende a una mercificazione quasi totale delle nostre esistenze e che tocca quasi tutti noi. Produrre ricchezza per consumare di più. Consumare di più per stimolare la produzione di beni e servizi, sempre più voluttuari e superflui. Ridistribuire il reddito prodotto al solo fine di attivare nuovi consumatori. Stimolare i consumi facendo ricorso ai più artificiosi mezzi di manipolazione di massa. Sino a quando si è “attivi”. Terminato il ciclo (per anzianità, malattia, handicap, povertà) essere proiettati fuori, nelle sacche di marginalità antiche e nuove che la nostra società produce in continuazione. La via d’uscita da un simile avvitamento mi pare essere questa: evolvere come singoli e come società verso nuovi “beni”, che siano autenticamente tali. Gli attuali consumi e prodotti hanno tutti o quasi un corrispettivo meramente materiale. Sono cioè “merci” che possono essere riscattate e scambiate, in quanto il loro valore è meramente monetario. Vedo però all’orizzonte concretizzarsi la possibilità, realmente evolutiva, di nuove entità, percepite sempre più come essenziali, che non potranno essere scambiate con altri beni materiali, ma riscattate solo mediante un investimento di tempo, di emozioni, di affetti. Saranno i beni “spirituali”, o se si vuole, i consumi umanizzanti, a trasformare la struttura dell’economia, e dunque a modificare e fare evolvere anche le nostre esistenze e i nostri comportamenti. La scoperta di queste nuove datità ci aiuterà a ridimensionare gradualmente il nostro sforzo produttivo, ovvero a riorientarlo, e ad attribuire nuovi significati al concetto di benessere, come mi pare già stia accadendo nei vari processi di elaborazione di modelli alternativi alla misurazione della ricchezza di un paese sulla sola base del Prodotto Interno Lordo.
-
La straordinaria potenza dei mezzi di interconnessione che oggi possediamo e di cui tutti facciamo uso possiede tuttavia anche una matrice evolutiva, il cui senso positivo va colto e attuato, se non si vuole ristagnare in fiacchi rimpianti di un’età dell’oro, in cui tutto era più semplice e piano. E in cui purtroppo era protagonista la guerra, gli isolamenti nazionalistici, la miseria morale e materiale, gli olocausti e tutti gli orrori che hanno scandito il Secolo Breve. Mi chiedo: cosa potenzia dell’umano in quanto tale l’attuale tecnologia? Che scatti evolutivi questa sembra presupporre nei suoi utenti? Che caratteristiche del tutto inedite deve o dovrebbe avere quest’uomo tecno mediatico del XXI Secolo, per adeguarsi ai mezzi di cui ogni giorno fa uso? Io credo che tutto oggi, dai cellulari alla posta elettronica, dai social network ai blog, sino al paradigma della “portabilità”, cioè all’emancipazione della comunicazione dai limiti fisici dello spazio e del tempo, prefiguri un uomo pienamente e compiutamente relazionale, e in qualche misura perfino spiritualizzato. Interconnesso cioè, in misura impensabile sino a qualche decennio fa, con infiniti “altri”. Ciò che la tecnologia oggi presuppone, senza averne precostituito le condizioni, è una nuova identità, non più arroccata nell’isolamento difensivo, ma polifonica e processuale. Un’identità dinamica e dialogica, che è delle persone e dei gruppi, nella quale l’Io e il Noi anticipa ed evoca i Tu e i Voi al livello della propria stessa costituzione. Nuove soggettività umane intessute in larghe trame di relazioni, soggettività sempre da ritessere e ricevere di nuovo come una donazione di senso, che viene dall’Altro. Malauguratamente, la tecnologia offre solo i mezzi. Non determina cioè i fini, e men che meno elabora le condizioni di possibilità autentiche perché tutto questo si avveri. Ho anzi la sensazione che, forzando in noi attitudini che non ci è stato dato di consolidare, la nostra potentissima tecnologia finisce per produrre il proprio contrario: distorsioni difensive, chiusure e isolamenti e ripiegamenti narcisistici, irrelazioni tanto più gravi e dolorose, quanto più la struttura antropologica bio-psico-spirituale non è adeguata ai mezzi di cui fa uso, e dunque – sollecitata oltre i propri limiti – è portata a difendersi. I moderni mezzi di trasporto ci consentono di viaggiare a 200 chilometri orari, ma se andiamo a sbattere a quella velocità moriamo, perché il nostro fisico non è adeguato a simili sollecitazioni. È allora urgente che ci si prepari giorno per giorno a questo grandioso salto evolutivo, di cui le ICT – Information Communication Technologies non sono allo stato attuale che una promettente metafora. Ai politecnici, ai centri di ricerca e sviluppo, all’educazione intellettuale e alla formazione scolastica che ci abilità all’uso dei nuovi mezzi, bisognerebbe affiancare, o far precedere, una nuova pedagogia dell’umano, nuovi cantieri e laboratori in cui forgiare un’umanità adeguata ai mezzi di cui dispone. Perché possa liberamente farne uso, invece di esserne usata. È il lavoro di una lunga preparazione, un lavoro da ostetrici, a cui nei gruppi Darsi Pace ci siamo appena accostati.
Amare alla fine di un mondo
Parte prima – La crisi della coppia come segno della svolta antropologica in atto | Guarda | |
Parte seconda – L’intensità della relazione cui aneliamo e la capacità di viverla | Guarda | |
Parte terza – Sciogliere le paure per aprirsi a nuovi livelli di coniugazione tra il cielo e la terra | Guarda |
Il vangelo? Il primo manuale di psicoterapia
Il primo indizio, per chi segue la liturgia quotidiana della Chiesa, è la lettura di giovedì scorso. Cristo (Luca 12, 49-53) dice: non sono venuto a portare pace sulla terra, ma divisione, “e in una famiglia di cinque persone tre saranno divisi contro due e due contro tre, si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”. Il secondo (ancora Luca, guarda caso un medico, 12, 54-59), il giorno successivo: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice (…) e ti getti in prigione”.
Tutto l’opposto dell’idea zuccherosa del bravo cristiano, buono e un po’ babbeo. A sfogliare il Vangelo, e a leggerlo con occhi moderni, sembra quasi che ciò che più prema a Cristo sia, non tanto una velleitaria fratellanza, ma l’invito ad accogliere i conflitti in cui è immersa la nostra vita. A cominciare da quelli con i nostri familiari, i nostri padri, le nostre madri. “Non opponetevi al male”, ci dice. Restateci dentro, insomma. Non tiratevi indietro, non ignorateli. Scavate nel vostro male. Guardate ai veleni delle vostre relazioni senza menzogne, senza maschere. Anche a costo di mettervi contro chi vi sta vicino, anche a costo di snudare la spada. E nel caso, non limitatevi allo scontro sterile, alla scenata fegatosa. Ma “accordatevi” con il vostro nemico, che è sempre un amico mancato, “accordatevi” con le vostre tenebre. Non nel senso del compromesso. Ma, come sottolinea una lettura del monaco MichaelDavide, nel senso proprio degli strumenti musicali, “accettando di tornare sui nostri passi e magari ricalibrando la tensione delle corde più intime del nostro cuore e della nostra mente insieme a quelle del nostro corpo, per ricercare un’armonia sempre possibile e sempre da ritrovare con pazienza”.
Che il cammino di fede non possa prescindere da un lavoro sul proprio inconscio, sulle proprie strutture psichiche distorte, l’aveva capito bene anche San Paolo, quando riconosce che in lui “non abita il bene”, che ha il desiderio del bene, “ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7, 18): “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”, sintetizza in modo sconcertante.
Lavorare sui blocchi che ci paralizzano, sulle difese che ci portano ad agire in modo aggressivo, remissivo, sconsiderato, sapere ascoltare le parti malate senza rigidità, scoprirne le origini e liberarne la potenza distruttiva riconoscendole una a una, trascenderle e trasformarle nel talento che quasi sempre celano: questo ci dice in modo molto chiaro il vangelo. Meglio di un testo di psicanalisi.
Eppure, nella Chiesa, ma anche in tanti cammini spirituali pieni di buona volontà, il lavoro psicologico viene spesso ritenuto superfluo, quando non sospetto. Oppure accettato, ma come ambito del tutto scisso da quello propriamente spirituale: da una parte, insomma, una bella laurea in psicologia, dall’altra una mezzoretta di preghiera devota. O di meditazione buddista. Basta che tutto resti ben separato.
Il risultato, per chi guarda le cose con realismo, è spesso sconfortante. Capita, persino in religiosi dalla pratica costante e sincera, di avvertire manie di controllo che celano insicurezze infantili, pretese nevrotiche di perfezionismo spacciate per zelo, esaltazioni della sofferenza o della gioia che appaiono forzose, esasperate, prive di quel senso di liberazione che si trova nel linguaggio leggero del Cristo. Quando, in certi ambiti di fede, si accenna alla possibilità di affiancare alla preghiera un’indagine sull’inconscio, con un analista o magari con l’aiuto di qualche piccolo esercizio, ecco che scatta in automatico una barriera difensiva: un’alzata di spalle, uno sguardo sospettoso, un predicozzo che sa di scorciatoia.
Un pregiudizio, del resto, uguale e contrario a quello di molte persone che invece si muovono lungo il percorso della psicoanalisi o della psicoterapia, ma che guardano con sufficienza a una dimensione dell’anima più profonda. Una dimensione spirituale, appunto. Con il risultato che, a volte, la terapia libera effettivamente la persona dai blocchi che la tenevano legata, ma l’abbandona poi dentro deserti senza alcun orizzonte di senso e di speranza. Distruzione senza costruzione. Dunque, per certi aspetti, la lascia peggio di prima.
In questi giorni, dopo quasi ottant’anni di dinieghi da parte degli eredi, esce il Libro rosso di Carl Gustav Jung, il diario con cui il grande psicanalista svizzero testimonia il suo viaggio negli abissi della psiche. Un testo che si preannuncia straordinario: dove il cammino di ricerca dell’anima diventa un pellegrinaggio tra testi sacri, meditazioni, psicologia, letteratura, preghiere, sogni, archetipi e visioni folli che nulla escludono e tutto integrano, infischiandosene dei dogmi e puntando dritti alla potenza liberante dello Spirito. Senza la confusione in cui è scaduta la new-age, ma nell’atteggiamento creativo di San Paolo che invita a provare tutto ciò che serve per la nostra crescita scartando ciò che non serve, o di Sant’Ignazio che ci dice “todo modo”, tutti i modi sono validi se arrivano a Dio. Ecco, nell’esempio di un gigante del Novecento, la strada per una ricerca onesta e fruttuosa. Ma chi di noi ha davvero la voglia, la forza e il tempo per percorrerla fino in fondo?
Massimo Cerofolini
La risposta di Dag Hammarskjold.
Sono più che mai convinto – assistendo al pallido e tragico avanspettacolo che sembra essersi impadronito dello scenario pubblico, nel nostro paese – che l’unica salvezza possibile per il nostro paese (ma è un discorso che potrebbe essere riferito all’intero Occidente, nel suo lento e inarrestabile declino) è una rivoluzione dei cuori, una rivoluzione delle persone, una rivoluzione morale.
A me sembra infatti piuttosto chiaro che un paese dove la politica e la moralesono morte, non ha futuro. In un paese dove la politica e la morale sono morte, cioè, può succedere di tutto. Ed è quello che stiamo constatando, giorno dopo giorno.
Politica e morale, dopo dosi spaventose di cinismo e delegittimazione inoculate ad abundantiam, sono due parole che ormai vengono guardate con sospetto. E la loro abolizione è anzi salutata da qualcuno come un lieto evento.
Invece, se soltanto si analizzano le cose con lucidità, si scopre che non abbiamo scoperto ancora alternative praticabili alla mediazione politica come regola di convivenza, e alla morale come regola e interesse comune.
La storia insegna che l’assenza della politica produce anarchie e totalitarismi, mentre l’assenza di morale produce corruzione diffusa, sfruttamento e umiliazione dei più deboli, disinteresse per la cosa pubblica, disfacimento delle istituzioni, in fin dei conti infelicità. Sì, perché l’uomo non può vivere felicemente da solo, e come insegnavano padri della Chiesa da una parte, e filosofi illuministi dall’altra, io non posso essere veramente felice se la mia felicità è fondata sull’infelicità altrui.
Ruminando queste riflessioni, sono ritornato alla esemplare figura di Dag Hammarskjold (Jonkoping 1905 – Ndola 1961), diplomatico svedese che fu per due mandati consecutivi segretario generale dell’ONU, dall’aprile del 1953 fino alla sua morte, avvenuta in un oscuro incidente aereo nel pieno della crisi congolese. A Dag Hammarskjold fu assegnato il Premio Nobel per la pace alla memoria, proprio nel 1961. Alla sua morte fu ritrovato tra i suoi scritti una specie di ‘Diario Intimo’, che fu pubblicato in ogni paese, e tradotto in ogni lingua con il titolo Tracce di cammino.
p style=”margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify” class=”MsoNormal”>Questo testo raccoglie le profonde riflessioni di un cristiano al servizio della polis. Dei suoi dubbi, della sua solitudine, del suo drammatico percorso, alla ricerca di pace e magnanimità tra gli uomini, specie nei posti più tormentati del mondo.
Dag Hammarskjold era un uomo che del “dare se stessi” fece un paradigma di vita. “Dare se stessi” scriveva, ” nel lavoro, per gli altri; basta che non sia un darsi tanto per darsi (magari con la pretesa che gli altri ti stimino). ” Dare se stessi era la politica di Hammarskjold. Dare se stessi era la sua morale. Ecco cosa scriveva quattro mesi di morire, nello strano incidente aereo (quasi certamente un sabotaggio) che spezzò la sua vita:
Io non so chi – o che cosa – abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno – o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d’Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l’impegno nella vita è l’oltraggio, e che l’umiliazione più profonda costituisce l’esaltazione massima che all’uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto.
Fabrizio Falconi
L’armonia della vita
“Non volevo morire senza aver capito perché ero vissuto. O, molto più semplicemente, dovevo trovare dentro di me il seme di una pace che poi avrei potuto far germogliare ovunque”
La sofferenza può essere una grande occasione di risveglio.
In questa intervista Terzani ci racconta la sua esperienza e ci indica la ‘via’.
Amare alla fine di un mondo
link al video per scaricare <click destro -- salva destinazione con nome>
Pubblichiamo nella sezione audiovisioni la conferenza di apertura dei corsi Darsi Pace (durata 50 minuti), che Marco ha tenuto, come ogni anno, nel Complesso storico dei Padri Domenicani a Piazza della Minerva a Roma, il 10 ottobre 2009.
[Leggi di più…]
Domenico: lasciamo volare in alto i sogni dei nostri figli!
2 fiocchi azzurri nei Gruppi Darsi Pace!
Annunciamo con molta gioia la nascita di Leonardo e di Lorenzo, figli rispettivamente di Alberta ed Enrico e di Claudia e Antonio.
Ai neogenitori un piccolo vademecum offerto da Domenico, intramezzato dai “vagiti della nuova umanità”, bene espressi dal tenerissimo Andrea.
L’invito è a non spegnere i sogni e le aspirazioni dei figli, e, per far questo, a non rinunciare ai propri sogni, a volare, a tenere alto lo sguardo, nonostante le difficoltà e le fatiche del quotidiano.
Sapendo che non si è soli, e quindi, cercando compagni e compagne di viaggio, amici con cui condividere il cammino.
Auguri a tutti i nascenti!
Buon viaggo alla scoperta di…
Siamo anche su