Oggi 8 marzo si festeggia in tutto il mondo la festa delle donne.
Lo sapevate che già nell’antica Grecia si svolgeva una “Festa riservata a sole donne” le Tesmoforie, festa religiosa in onore della deaDemetra Tesmofora, che durava diversi giorni ed il cui rituale, appunto, era assolutamente interdetto agli uomini! [Leggi di più…]
Questo sito non ha alcun colore politico. Le persone che ci scrivono in genere sono abbastanza lontane dalla lotta partitica e in ogni caso al momento del voto si dividono equamente su tutto l’arco istituzionale, destra, centro, sinistra, oltre ai due estremi. Ma questo è un sito attento ai segnali del mondo. Che cerca tra le righe di una cronaca sempre più confusa quei semi di liberazione e nutrimento utili per è in cammino. L’articolo che segue è apparso venerdì 16 aprile sul Corriere della Sera. Parla del rapporto con la fede di Nichi Vendola, leader di Sinistra e libertà, gay e cattolico. Sono in molti a sinistra che sperano di vederlo, Vendola, eletto alle primarie per la prossima sfida delle politiche, tra tre anni. E di certo, qualsiasi sia il credo di chi legge, le parole che pronuncia hanno un sapore molto diverso dal coro che abitualmente riempie tg e programmi televisivi. Si avverte, in questa intervista, una ricerca sincera, un cammino tortuoso ma solido verso una liberazione dalle strutture egoiche dell’odio, che nell’agone politico esplodono nelle forme più becere. E anche un’originalità di pensiero che non esita a indicare il clero di base come più tollerante verso i gay rispetto al partito comunista. Che apprezza intellettuali omosessuali intrisi di cattolicesimo, come Pasolini, ma prende le distanze dagli eccessi di colpa che accompagna la loro opera.
Cosa ne pensate, è possibile che – sulla scia di Vendola – il pensiero politico a destra come a sinistra possa rinnovarsi, accogliendo parole e proposte che traggono linfa dalle profezie della Bibbia?
(dal Corriere della Sera)
Vendola: «Io, gay e cattolico: più facile dirlo ai preti che al partito»
«Sono sempre stato cattolico e omosessuale, non l’ho mai nascosto. E dichiararsi non è pettegolezzo. E’ carne, fatica, sangue, dolore, emarginazione, offese, violenza. Sono sempre stato anche cattolico e comunista, come la mia famiglia. Ed è stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito». Nichi Vendola, eletto per due volte a sorpresa presidente di una grande Regione del Sud, si dichiarò nel 1978, quando aveva vent’anni e da sei era nella Federazione giovanile comunista, con un articolo su un giornale da lui fondato, «In/contro». Titolo: «Le farfalle non volano nel ghetto». «Era un verso che avevo trovato in una raccolta di poesie scritte nel ghetto di Varsavia. E ho avuto tutte le difficoltà che potevo avere, nel partito, al Sud, al paese», Terlizzi, periferia di Molfetta, terra di braccianti. «Mi ha sempre affascinato il pensiero religioso. Ero uno di quei comunisti per cui il libro più importante è la Bibbia.
Ma ha contato molto per me anche il pessimismo di Sergio Quinzio, ho amato i libri del cardinal Martini, e sono stato discepolo del vescovo di Molfetta, il mio vescovo, Tonino Bello». «Ho parlato della mia omosessualità con molti preti, con uomini e anche con donne di Chiesa — racconta Vendola —. Non mi sono mai sentito rifiutato. Sono state anzi interlocuzioni belle, profonde. La Chiesa è un universo ricchissimo e complicato, non riducibile a nessuna delle categorie politiche che usa la cronaca. Nella Chiesa ci sono molte sensibilità, molte cose; e qualcuna crea dolore e tristezza, quando evoca stereotipi pseudomorali che non hanno solo l’effetto di indicare identità ideologiche, ma anche di ferire la vita delle persone». E’ di Vendola la prefazione agli scritti di monsignor Bello, «Teologia degli oppressi». Comincia così: «Io ero sull’altra riva, quindi ero un rivale». «Tutta la teologia di Bello è una teologia della differenza— sostiene oggi il presidente della Puglia —. Come quando spiega il dogma della Trinità con la metafora della convivialità delle differenze: la presenza di tre differenze in un’unità ci insegna la bellezza della convivenza, che è qualcosa di più della tolleranza». Dice Vendola di non aver mai rinunciato alla fede, di credere più che alla rivoluzione alla conversione permanente, di confidare che Dio saprà capire anche quelli come lui, perché «Dio non è un tribunale islamico». Dice di non amare il coté «pirotecnico, esibizionista». Per questo in passato non app r e z z ò le confessioni di bisessualità rese da altri politici, «una dichiarazione che si faceva a 18 anni per fiutare un po’ l’aria. Anch’io sono stato bisex, e avevo fidanzate bellissime. Sono stato sul punto di sposarmi due volte. Ma non ho mai raccontato bugie, ho sempre vissuto quei rapporti da omosessuale». Storie lontane, «ho avuto molti amori, ho molto sofferto. Non mi sono mai arreso però, non ho mai permesso a nessuno di chiudere la mia storia dentro uno spigolo di rancore. Anche se mi hanno fatto di tutto». Tempo fa raccontò di quando «un dirigente nazionale di An venne a fare campagna elettorale nel ‘94 e tentò di stroncarmi accusandomi di andare con i ragazzini, peraltro pagati per dirlo. Andò via con le pive nel sacco, mentre io ricevevo migliaia di lettere di ragazzi che mi dicevano grazie per avergli dato coraggio». Anche questa è una storia lontana, «oggi ho disimparato l’odio». Spiega il presidente della Puglia di essere rammaricato per aver fatto soffrire la madre; a sua volta rammaricata per aver sofferto. Mamma Antonetta, casalinga e donna all’antica di Terlizzi, ha ricordato il giorno in cui una nipote le aprì gli occhi sul terzo dei suoi quattro figli: «Ci siamo pentiti di averne patito e oggi siamo orgogliosi, anche se di sesso parliamo per accenni e per sottintesi».
Nichi le portava in casa le fidanzate: «Ne ricordo una, Aurelia. Era bellissima. Ed è vissuta in casa con noi e con mio figlio per più di un mese». Una volta, nel comitato centrale del Pci, l’autorevole compagna Marisa Rodano disse rivolgendosi indirettamente a lui: «Se uno di questi mettesse le mani su uno dei miei nipotini gli darei subito una sberla». Si dibatteva dei diritti degli omosessuali, dei carcerati, di tutte le minoranze e Vendola, che stava già nell’Arcigay, predicava la liberazione dei «soggetti smarriti» che è il titolo del suo primo libro. Prima aveva scritto la tesi di laurea sul Pasolini degli Anni 50, cacciato dal Pci per indegnità morale. Pasolini: anch’egli cattolico, comunista, omosessuale. «Ma lo si può amare senza essere come lui— dice Vendola —. Pasolini, come Testori e in fondo anche Fassbinder, ha avuto il grande merito di tirare la sua condizione di omosessuale fuori dall’oscurità ma l’ha illuminata con le fiamme dell’inferno. L’omosessualità di Pasolini è molto segnata dal suo cattolicesimo. Lui si percepisce come il Cristo della diversità: una condizione vocata al martirio, a causa del senso di colpa. Il peccato e l’espiazione del peccato, per cui la sua letteratura diventa premonizione della sua stessa morte. La diversità come impossibilità dell’amore, un’identità che si afferma negandosi, come la Jeanne Moreau che canta “Ogni uomo uccide come ama”. Io amo Pasolini come amo Testori e Fassbinder, ma mi rifiuto di accettare questa visione. Ho sempre cercato di trascenderla, e questo mi ha aiutato a essere una persona serena, a uscire dal tunnel senza fine del senso di colpa».
Tempo fa, Vendola fece discutere quando disse: «Non vorrei morire senza aver vissuto l’esperienza della paternità». «Non intendevo annunciare che sarei diventato padre, o che avrei fatto un’adozione che peraltro la legge mi vieta — spiega oggi —. Ma mi sento di ribadire il mio desiderio di genitorialità. Sento molto la tutela della vita, la difesa del vivente. Sono contro la mercificazione e la privatizzazione della vita. Il tema fondativo del futuro è la costruzione della vita nelle forme di comunità. Il sangue non c’entra: per me la paternità non è un dato fisiologico, limitato al proprio seme. Allevare un figlio significa accudirlo, conoscerlo, ascoltarlo; amarlo. Dev’essere una cosa bellissima. Per questo, ogni volta che leggo di un neonato abbandonato, provo una stretta al cuore.»
“Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere”. (Salmo 1,3)
Desidero condividere con voi l’esperienza bellissima vissuta nell’incontro di sabato 13 febbraio del gruppo Darsi Pace, seconda annualità.
Marco ci ha spiegato l’esercizio a nove punti che si trova nel libro Per Donarsi (pag.121-132): noi lo abbiamo eseguito ed approfondito insieme.
Tralasciando le mie risposte ai primi punti dell’esercizio, arriviamo al punto 4: scendo nel punto di dolore/scissione che si trova sotto tutte le mie rabbie e le mie paure, lo ‘sento’ e provo ad esprimerlo.
Ed io l’ho espresso con queste precise parole: “Sono arida, asciutta. Un deserto. Non c’è acqua. Non c’è vita. Solo fine, solo morte. Non ci sono parole né salvezza. Niente da dire. MORTE.”
Passiamo al punto 8: chiedo aiuto a Dio, un aiuto preciso, chiedo ciò di cui ho bisogno vitale.
Ed ecco la mia richiesta: “apri il mio cuore al vero Amore dammi l’acqua come balsamo di vita dammi il bene”
Poi il punto 9: ricevo l’aiuto. Mi sintonizzo su un clima amorevole che già si sta facendo strada nelle mie tenebre se ho lavorato nella luce. Questo clima amorevole è lo Spirito che ci parla attraverso l’amorevolezza, ci dà risposte. La risposta dello Spirito è sempre una consolazione. Qui il nuovo credente, finalmente, dà parola a Dio!
E questo ho sentito: “Sono Io l’acqua che cerchi”
Naturalmente quando l’ego ha riconquistato terreno, ha portato con lui i suoi soliti dubbi, le sue striscianti insinuazioni, le sue infedeltà. Possibile che Dio mi abbia voluto parlare? Sarà soltanto suggestione. Ma sì, vedrai che è così.
Ma durante la Messa del giorno seguente, ecco cosa diceva la prima lettura:
Ger 17, 5-8 Così dice l’Eterno: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e fa della carne il suo braccio, e il cui cuore si allontana dall’Eterno! Egli sarà come un tamerisco nel deserto; quando viene il bene non lo vedrà. Dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra salata senza abitanti. Benedetto l’uomo che confida nell’Eterno e la cui fiducia è l’Eterno! Egli sarà come un albero piantato presso l’acqua, che distende le sue radici lungo il fiume. Non si accorgerà quando viene il caldo e le sue foglie rimarranno verdi, nell’anno di siccità non avrà alcuna preoccupazione e non cesserà di portare frutto.”
Arrivata a casa ho proseguito la lettura: Ger 17, 13-14 O Eterno, speranza d’Israele, tutti quelli che ti abbandonano saranno svergognati. “Quelli che si allontanano da me saranno scritti in terra, perché hanno abbandonato l’Eterno la sorgente d’acqua viva” Guariscimi, o Eterno, e sarò guarito, salvami e sarò salvato, perché tu sei la mia lode.
Quale dubbio può esserci? Può forse essere un caso che io abbia trovato le STESSE parole da me scritte il giorno precedente? Non sono certo un’esperta conoscitrice della Bibbia, non sapevo quale fosse la liturgia del giorno seguente.
Ecco, quella era un’ulteriore risposta, definitiva, inequivocabile! Un riscontro veramente ‘testuale’! Certo il Signore conoscendo la mia sorda cecità ha voluto squarciarla.
Non vi dico la mia gioia stupefatta, poi sempre più convinta e colma di gratitudine.
E mi sono tornate alla mente due poesie che ho scritto forse una decina d’anni fa, ma che ora leggo sotto una nuova luce.
Nella prima il mio io-mandorlo si trova in uno stato di aridità e di ricerca dolorosa, sassosa ed impervia, in una condizione di sofferta spremitura del suo frutto, nutriente ma secco.
Il mandorlo
radicato tra scabri sassi sbilenchi a scovare esigue gocce riposte, le aeree corolle trapuntano i legni contorti e sfogliati
lacrime bianche distilla il suo dolce frutto amaro
come la nostalgia di un canto andino
lontano
Nella seconda poesia, nonostante la sottesa atmosfera di malinconica nostalgia, il mio io-salice è vicino ad un fiume ( “Egli sarà come un albero piantato presso l’acqua, che distende le sue radici lungo il fiume” ), lo sfiora chiedendo che la sua sete sia consolata e abbandona alla sua corrente le proprie speranze e i propri desideri.
Il salice
quante notti i miei fili sottili s’intrecciarono ignari ai capricci del vento
fiume pensoso nel languore lunare se flessuoso ti sfioro la pelle cullerai questa sete?
a te lascio i sospiri sfioriti nell’addio dell’orizzonte estremo
Penso che già allora ( e chissà da quando) io cercassi l’acqua, anelassi al luogo dove piantare il mio albero che vuole dare frutto .
- L'intervento di Marco Guzzi e Fabrizio Falconi su Radio Uno Rai -
Più scendiamo nella confusione e nei conflitti che avvelenano le nostre vite, più diventano vere e profonde le parole scritte settant’anni fa da Etty Hillesum, la giovane intellettuale di Amsterdam uccisa nel campo di sterminio di Auschwitz. All’orrore estremo del male, quello senza paragoni storici prodotto dai nazisti, Etty sapeva reagire smarcandosi dall’odio, certo legittimo e comprensibile, che nutriva i suoi fratelli ebrei. E proponeva una via nuova, folle, ma straordinariamente vera: guardare prima al proprio marciume, estirparlo e dissotterrare quella potenza d’amore che sta in fondo alla nostra anima. Fino a imparare a lodare la vita sempre, malgrado tutto quello che può succedere.
Lo faceva con grande libertà creativa, con curiosità, pescando senza timori nel meglio della produzione e delle esperienze culturali e spirituali prodotte dall’umanità: la poesia, i testi sacri di tutte le religioni (ma in particolare la Bibbia), la letteratura, la preghiera, la psicologia, la meditazione, l’esercizio fisico, la scrittura, la filosofia, la vicinanza convinta verso il prossimo che soffre. È la risposta che sempre più spesso cercano oggi gli uomini in ricerca. Una risposta per liberare la forza creatrice imprigionata dalle nostre paure e dalla nostra dipendenza dal giudizio altrui. Nei gruppi di Darsi Pace l’attitudine di Etty Hillesum è uno degli aspetti centrali alla base delle pratiche che vengono sperimentate. E anche i mezzi di informazione sempre più spesso si accorgono di lei, che è stata il cuore pensante tra le baracche del lager e che oggi è profeta di un’umanità nuova, liberata. Nel link la puntata andata in onda sul programma Il viaggiatore di Radio Uno Rai. Intervengono, tra gli altri, Marco Guzzi, Fabrizio Falconi, Erri De Luca, Giuseppe Cederna, Enzo Maiorca e Angelo Branduardi. http://www.radio.rai.it/radio1/ilviaggiatore/view.cfm?Q_EV_ID=313454
Per chi vuole approfondire la figura di Etty Hillesum, di seguito un intervento di Marco Guzzi. UN DIO DA AIUTARE A NASCERE Tutti concordano ormai sulla rilevanza storica degli scritti di Etty Hillesum, che vengono accolti come uno degli eventi spirituali più incisivi e sorprendenti degli ultimi decenni. E certamente poche pagine possono toccarci più a fondo di quelle in cui Etty esprime la propria riconoscenza, le proprie lacrime di riconoscenza tra i fili spinati dell’inferno di Westerbork. Eppure non mi sembra ancora chiarito a sufficienza in che cosa consista l’originalità dell’esperienza spirituale di Etty, e cioè quella sua specifica natura che ce la rende così vicina, così contemporanea. E qui ha ragione Gaarlandt quando sostiene che le sempre più numerose rivendicazioni ebraiche e cristiane del suo pensiero dimenticano che Etty “segue un cammino assolutamente personale”, guidato da “un ritmo religioso tutto suo, che non è dettato da chiese o sinagoghe, né da dogmi, né da nessuna teologia, liturgia o tradizione – cose che le erano tutte completamente estranee.” E forse è proprio questo l’elemento spirituale che più ci riguarda, e che andrebbe più attentamente approfondito. Proporrò dunque solo alcuni spunti molto sintetici, addirittura schematici, in questa direzione interrogativa, una sorta di indice per una ricerca ulteriore : a) Etty inizia il cammino della propria trasformazione, descritta nei diari, da una condizione esistenziale già estrema, che non sembra determinata di per sè dalle persecuzioni in atto, ma da sommovimenti del tutto interiori : “in fondo ho già toccato i limiti, è già successo tutto, ho già vissuto tutto, perché continuo a vivere ?”. Oltre questa soglia “non mi rimarrà che il manicomio. Oppure la morte?” Qui Etty è sorella di Rimbaud e di Campana, di Trakl o di Dylan Thomas. Patisce cioè esistenzialmente la catastrofe di un’intera figurazione storica di umanità, di cui la Seconda Guerra Mondiale, come la Prima, non furono che lo scenario apocalittico: effetti cioè più che cause. b) In questa catastrofe, storica e psicologica al contempo, l’ego occidentale sprofonda : “Questo io tanto ristretto, coi suoi desideri che cercano solo la loro limitata soddisfazione, va strappato via, va spento”. E crollano tutte le certezze teologiche e ideologiche, tutte le arroganze conoscitive del nostro ego. Per cui non resta che scendere più profondamente in noi stessi per cercare la fonte di un nuovo orientamento: “la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo Dio”. c) E come la ricerca Etty questa fonte di vita, sottratta alle guerre mondiali del nostro ego? Innanzitutto attraverso un lavoro psicologico sulle proprie aree oscurate : “Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, (…) e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume”. Incontriamo Dio cioè lavorando sulla nostra ombra. E qui Etty assorbe la lezione di Jung attraverso la psicochirologia di Spier. Ed è anche uno sblocco erotico e sessuale a liberare la sua spiritualità. d) Questo sblocco psichico la libera progressivamente dalle tenaglie della paura, che prima la paralizzava : “Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo”. E questa liberazione dall’ego e dai suoi terrori sfocia nella creatività, nella scrittura. Il divino liberato si esprime cioè poetica-mente: “In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia”. E anche qui Etty, attraverso Rilke, si connette alla linea poetica che da Hoelderlin in poi, e fino a Celan o a Luzi, esperimenta un dire trans-egoico che ci parla e ci guarisce. Dunque l’esperienza spirituale di Etty sembra essere profondamente psicologica e poetica, e proprio per questo così concreta e capace alla fine di donazione completa di sé. Il cuore può continuare a pensare e addirittura a cantare nell’inferno, solo perché è stato ben lavorato, perché cioè le sue difese sono state già abbattute. Non c’è niente di intimistico in questo itinerario, si tratta al contrario di contribuire a ricostruire il mondo su un “ordine superiore”: “Da qualche parte in me c’è un’officina in cui dei titani riforgiano il mondo”. Ma Etty sa che i progetti rivoluzionari fondati sull’odio e sulla vendetta, sulla proiezione semplicistica delle proprie ombre sul nemico di turno, e cioè le “durissime teorie sociali di un tempo” sono appunto residui del mondo che sprofonda, reperti di una figura di umanità già finita. Il mondo nuovo è solo l’uomo nuovo che lo incomincia a balbettare con le nuove parole che lascia sgorgare dal cuore pacificato in una assoluta riconoscenza. Ribalbettando un mondo senza odio Etty incontra poeticamente e psicologicamente, e cioè da dentro la propria carne emotiva, la tradizione ebraica e cristiana: “Mi porterò una Bibbia e quei libretti sottili, le Lettere a un giovane poeta”. Nell’inferno del campo di Westerbork Etty porta nel cuore l’intera storia della salvezza e il travaglio rigenerativo della modernità che culmina nei balbettii dell’Uomo-Dio nascente, ricordato da Rilke proprio al giovane poeta: “Chi vi trattiene dal gettare la sua nascita nei tempi venturi e vivere la vostra vita come un bello e doloroso giorno nella storia d’una grande gestazione?(…) Festeggiate, caro signor Kappius, Natale in questo pio sentimento ch’Egli forse abbisogni appunto di questa vostra angoscia della vita, per iniziare”. E’ il mistero di salvezza di Cristo che riemerge dal cuore poetico di Etty sciolto dalle catene dell’odio e dalle illusioni dell’io? Quando il suo amico Klaas, il “vecchio e arrabbiato militante di classe”, le dice sconcertato che il suo progetto di purificazione interiore non sarebbe altro che cristianesimo, Etty annota: “E io, divertita da tanto smarrimento, ho risposto con molta flemma : certo, cristianesimo – e perché no?” Un cristianesimo però decantato attraverso tutte le purificazioni della modernità e dello stesso nichilismo, secolarizzato al massimo, e perciò reso davvero non violento. Un cristianesimo filtrato da Rilke e da Jung, e cioè smascherato in tutte le contraffazioni (psico-teologiche) della sua storia. Un cristianesimo cioè ancora in buona parte futuro. Ecco perché gli scritti di Etty escono solo nel
1981. Non sarebbero stati assimilabili prima. Non sarebbero stati tollerabili. Forse solo ora possiamo incominciare a riconiugare il Cristo con gli esiti estremi della modernità, la forza della tradizione con l’urgenza di novità poetica, abbandonando dentro e fuori di noi interi repertori storici, abiti mentali e figure di identità, linguaggi e rituali ormai inutilizzabili. Forse solo ora possiamo incominciare ad accettare una prospettiva che coniughi la trasformazione interiore con il processo storico di liberazione, e cioè psicologia, mistica, e politica in una sintesi inaudita, in un orizzonte folle e buono di guarigione e di salvezza davvero globali: “la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo”.
Tante cose di cui fare tesoro, tanti piccoli-grandi segreti, nelle accorate parole di Claudia. Un vademecum per i nostri periodi bui, per le fasi depressive, quando non si vede una via d’uscita e la speranza è una parola vuota, fastidiosa, fasulla. Chiedere aiuto, spezzare la catena che ci lega ad una visione parziale della realtà e ci fa ripiegare sul nostro dolore: questo atteggiamento di apertura è una prima valvola di sicurezza, che favorisce, a livelli neppure immaginabili, una serie di effetti “serendipitari”, per cui ci viene incontro proprio ciò di cui abbiamo bisogno, e per cui siamo pronti solo ora. Occorrerà forse uno sforzo di comprensione per decifrare i sottili messaggi che arrivano, ma qualcosa di nuovo accade. A questo punto, ed è il secondo segreto, è opportuno mettersi a scuola. Altre persone in ricerca possono accompagnarci per un tratto di cammino, svelandoci sentieri inediti e nuove fioriture. Claudia ha cercato aiuto nella medicina, nella psichiatria, nella direzione spirituale, nella comunità di appartenenza, riscoprendo al contempo il potere della parola rivelata della tradizione, una fonte sorgiva di sapienza e di luce. Ma soprattutto è stata fedele al suo dolore, non lo ha mascherato, non lo ha contraffatto. “Stai agli inferi e non disperare”, ci ricorda Silvano del Monte Athos, perché è solo da lì, dall’attraversamento del baratro d’angoscia, dove si rinnova la profonda ferita originaria, che potrà sbocciare un virgulto, piccolo, verdino, di vera speranza. Nella trama dei giorni Claudia ha potuto sperimentare l’unione sempre più forte con l’unico maestro per noi cristiani, venuto a liberarci da ogni idolatria, a richiamarci alla più profonda verità del cuore. E’ quindi arrivato il momento di donare ciò che ha ricevuto: dall’anima sempre più unificata sgorga infatti un’azione integra che trasforma in buoni conduttori, canali senza ostruzioni della potente azione creatrice dello Spirito della vita.
in questo Venerdì di Passione ripensavo all’interpretazione che Martin Heidegger ci ha offerto del famoso frammento di Eraclito “ethos anthropo daimon”, e cioè: ciò che è più proprio alla natura dell’uomo, la sua dimora abituale, è la dimensione più abissale, quella abitata dal Dio.
Perciò l’uomo è lacerato.
L’anima umana è come bucata, sfondata sull’abisso, e quindi costantemente inquieta e malata e bisognosa di cura.
Abissale, demonica, divina da una parte, e pronta a rinnegare e a mistificare la propria infinità, dall’altra.
Questa condizione inquietante e ambigua del nostro destino terreno si manifesta in modo direi eclatante nella sorte che tocca il più delle volte a chi tenti di rimanere fedele a questa lacerazione radicale, provando anzi a dimorarvi, senza mascherarne l’abissalità, ma al contrario sondandone le potenzialità creative e rivelative.
Queste persone che restano fedeli alla loro più profonda umanità, e quindi alla verità del loro destino, sono quasi sempre e in vari modi escluse, emarginate, perseguitate, e spesso fisicamente fatte fuori dalle società alle quali appartengono, anche se poi vengono magari onorate e studiate e venerate, ma sia ben chiaro solo dopo la loro morte.
Non si rallegrino troppo però i persecutori dei giusti e degli innovatori, subito pronti a celebrare e ad incensare quelli già da tempo morti e sepolti. La loro condanna infatti è comunque segnata: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!” (Matteo 23,29-31)
Il consesso umano, in altri termini, odia (da vivo) e ama (da morto) il profeta, il saggio, o il giusto che con la sua essenzialità povera, libera, e felice, ridicolizza tutte le mascherate e le carnevalate del potere.
In ogni tempo e in ogni luogo di fronte alle persone più fedeli al mistero abissale della propria umanità, tutti gli altri, e specialmente i più vili, i più alienati, e i più ipocriti, hanno pensato più o meno in questi termini:
“E’ diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti,
ci è insopportabile solo al vederlo,
perché la sua vita è diversa da quella degli altri,
e del tutto diverse sono le sue strade.
Moneta falsa siamo considerati da lui,
schiva le nostre abitudini come immondezze.” (Sapienza 2,14-16)
E’ questo che dimenticano gli illuministi e gli ottimisti di tutti i tempi: l’essere umano è lacerato da un demone, da un abisso che se non genera amore produce odio furibondo.
Non basta cioè una buona istruzione e un lavoro sicuro per renderci propensi alla ricerca della verità o del bene comune.
Ben più radicata e profonda è in noi la radice del male.
Ben più folle è il nostro rifiuto della verità, e ben più avanzato è l’ottenebramento cosmico della luce.
Chi non voglia soggiacere al crudelissimo teatro delle menzogne, che di epoca in epoca gli umani mettono in scena, da Caino in poi, è chiamato perciò ad una sorta di insurrezione permanente, e sarà ogni giorno corteggiato dalla seduzione o tormentato dalla persecuzione dei proconsoli e dei funzionari dei poteri tenebrosi di questo mondo.
O lo si vorrà assuefare in ogni modo all’aria mefitica della chiacchiera mondana, e renderlo così inoffensivo, oppure si tenterà direttamente di cancellarlo, di eliminarlo, di metterlo ai margini, affinché la sua semplicità non smascheri l’ipocrisia degli empi.
E allora è molto opportuno, per dribblare indenni tra seduzioni e persecuzioni, apprendere l’altissima arte dell’innocenza delle colombe, ma anche quella non meno sublime dell’astuzia dei serpenti.
Il principe Ki, ci racconta l’I Ching, dovette fingersi pazzo per non lasciarsi corrompere dalle trame della corte del tiranno Ciou Sinn.
E questo può essere un buon metodo per resistere, a volte.
Anche alcuni maestri sufi suggeriscono di fingersi un po’ scemi, e di simulare di dormire mentre si medita o si prega in presenza dei profani, per evitare che possano ridere di noi, insultarci, o peggio.
Geremia poi ci racconta di una continua persecuzione nei suoi confronti, scatenata specialmente da parte dei suoi “amici”: “Tutti i miei amici/ spiavano la mia caduta” (Ger 20,10).
Sono infatti le persone più vicine, quelle che conoscono meglio e in fondo ammirano le qualità dell’”amico”, che finiscono per non sopportare la sua presenza, e per condannarlo all’infamia o alla morte: “Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda,/quando insieme contro di me congiurano/ tramano di togliermi la vita” (Sl 30,14).
Così è accaduto anche a Socrate, tolto di mezzo dai soliti custodi dell’ordine di questo mondo, proprio perché cercava senza paraocchi la verità e si proclamava ignorante e devoto e povero, in mezzo alle risse dei politicanti e all’alterigia dei “sapienti”.
Ma tutta questa tragedia del rapporto conflittuale tra la verità abissale dell’uomo e l’umanità tendenzialmente ostile alla luce dell’abisso, culmina nella spaventosa vicenda di Gesù.
Sono duemila anni che ci ripetiamo la narrazione di un evento che deve restare comunque sconcertante: un popolo intero, tutti i poteri costituiti: il Re (Erode), il Sacerdote (Caifa), il Governatore dell’Impero (Pilato), accusano un solo uomo, e decidono di farlo fuori, senza alcun motivo, che non fosse la grandezza sempre più evidente e incontestabile del carpentiere di Nazareth.
Ci viene raccontato minuziosamente che questo uomo, innocente e sapiente e buono come pochi, fu schernito e percosso da scherani e soldataglia, insultato e ridicolizzato, schiaffeggiato e fustigato e incoronato di spine, abbandonato e tradito e rinnegato da quasi tutti i suoi amici, dalle persone che aveva guarito e beneficato in ogni modo, e infine inchiodato a una croce tra due briganti, e assassinato.
Ma perché la verità ha una sorte tanto dura in questo mondo?
E perché questa storia terrificante è al centro di tutta la nostra civiltà?
Che cosa ci rivela insomma di essenziale l’abominio della croce?
Se lo chiedano coloro che negano con troppa facilità il mistero della caduta originaria e quindi sorvolano sulla spaventosa atrocità del passaggio del Cristo/Verità, e quindi in definitiva dell’intera storia terrestre, da questo mondo di menzogne alla gloria ridente, allo splendore del Regno del Padre.
E alla fine dovremmo anche chiederci: chi può resistere, chi può restare fedele alla verità vivente, specialmente quando si fa più folle e brutale e fonda l’ora delle tenebre?
Se lo chiedeva il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer alla fine del 1942.
E la sua risposta era molto semplice.
“Chi resta saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio: l’uomo responsabile, la cui vita non vuole essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio. Dove sono questi uomini responsabili?”
Oggi più che mai resta e resterà saldo solo chi fonderà la propria saldezza in un punto fuori dal mondo, come cantava René Char: “Noi non apparteniamo a nessuno se non al punto d’oro di questo lampo sconosciuto a noi, e per noi inaccessibile, che tiene desto il coraggio e il silenzio”.
Il tempo della ragionevolezza “etica” è compiuto.
Viene il tempo, e
d è già ora, del totale affidamento a potenze ulteriori, interiori, altre e più nostre rispetto al nostro io che presume di sapere chi è.
Da qui, e solo da qui, da questo punto di vera libertà, oltre la sfera mortale, possiamo ripartire, ora che le catastrofiche illusioni di rinnovare l’uomo restando dentro il mondo e negando Dio, si sono infrante nelle carneficine del XX secolo.
No, il Regno autentico della verità entra nella storia goccia a goccia, e solo per la piccolissima porta del cuore di ogni uomo, che giorno dopo giorno si purifichi dall’odio, per scoprire nella propria abissalità la sorgente stessa dell’essere, al di là dei confini visibili e concepibili del mondo.
E viene e cresce il Regno anche ora, anzi ora più che mai, nonostante tutte le persecuzioni e le esclusioni che le ultime schiere dei servi dell’Usurpatore tentano di mettere in campo.
E se il nostro fosse proprio il tempo giusto per comprendere ad un nuovo livello queste verità? E per prepararci ad una inedita età della storia del pianeta terra, e dell’avvento del Regno che la rinnova?
Domenica 4 aprile, alle ore 8.30, andrà in onda su Radio Uno RAI una puntata della trasmissione Il Viaggiatore, dedicata a Etty Hillesum, e al suo significato rispetto alla Pasqua.
Parteciperanno Marco Guzzi e Fabrizio Falconi.
Ancora una volta gli italiani sono stati chiamati a votare. Ma a votare per cosa ?In rappresentanza di cosa e di chi ?Per realizzare quali intenti e quali aspirazioni ? Per eleggere chi ?
Credo che davvero il sistema di rappresentanza politica, in tutto l’Occidente, sia entrato da tempo in una crisi che forse sta raggiungendo il suo punto più basso.
Ed è una crisi che a quanto pare coinvolge anche la stessa concezione di rappresentatività democratica, nella accezione che oggi diamo a questa parola.
Davvero con l’attuale sistema di rappresentanza politica democratica, il cittadino vede riconosciuto il proprio diritto a contare e a decidere ?
Decidere cosa ?I nuovi sistemi elettorali sembrano ormai sempre più confezionati come strumenti dove tutto o quasi è già deciso, a partire dalle persone che possono/debbono essere eletti.
I cittadini non possono scegliersi liberamente i propri rappresentati. Esprimono un voto di gradimento a quello che – nella assenza di specifici programmi elettorali – è spesso semplicemente un ‘marchio’.Dicono sì o no a un prodotto che qualcun altro ha scelto per loro. Sono chiamati a svolgere la funzione di consumatori di una offerta ‘politica’ – più che di elettori (coloro che dovrebbero scegliere ‘secondo la propria volontà’ chi è più adatto a rappresentarli, nella ‘società civile’).
La classe politica attuale è ormai una ‘casta’ – termine molto inflazionato ma efficace – che vive e consuma i suoi privilegi, totalmente scollata dal resto della società. Che prende decisioni dall’alto (le leggi di iniziativa popolare sono ormai praticamente scomparse dal panorama politico)e che chiede semplicemente al Parlamento di ratificarle con un voto formale.
E’ conseguente che allora, in questo sistema, prevalga sempre e comunque chi è più bravo ad orientare i gusti del pubblico (è meglio chiamarlo così, piuttosto che dell’elettorato)e a vendere le facce giuste e i pochi slogan che contano e che possono arrivare direttamente agli orecchi di chi è chiamato a votare.
Non sorprende perciò che anche questa volta la percentuale di astenuti al voto sia cresciuta in modo esponenziale. Un +7,8% che sul dato nazionale vuol dire quasi 15 milioni di persone che non è andata a votare.
Ma anche questo segnale serve a qualcosa ? Ne dubito fortemente. Degli astenuti si parlerà per un paio di giorni, poi tutto ricomincerà come prima: governanti e classe politica chiusi nei loro dorati privèe (dove accadono anche cose molto poco edificanti, come ci viene raccontato ogni giorno)e massa dei cittadini divisa tra frustrazione, invidia (i furbi hanno sempre ragione), e rassegnazione.
Vi è mai capitato di uscire dal sogno sereni come dopo una meditazione, una preghiera? O illuminati da una scoperta fondamentale sulla vostra vita interiore? O spinti verso una scelta esistenziale importante ?
Il sogno che propongo e la sua interpretazione è quello di uno psicanalista ormai novantenne, Gaetano Benedetti, ed è tratto dal suo libro: Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia, pubblicato nel 2005, a Torino.
Nella prefazione al volume l’autore dice che il libro potrebbe anche intitolarsi: Pensieri cristiani di uno psichiatra agnostico. E spiega: “Agnostico perché, nonostante il fondamento cristiano della mia Weltanschaung, io non riposo in alcune delle verità asserite dal Cristianesimo: le metto sempre in dubbio, le rinnovo, per rispondervi poi dai più diversi punti di vista, e non lascio mai arrivare interrogativo alcuno alla soluzione.”
Ma che tipo di agnostico? “Sono un agnostico attivo, che non si dà pace, pensa oltre e, pur non trovando soluzioni ‘certe’, non dispera mai, perché sente di realizzare ed esaudire la sua vita nell’eterna ricerca.(…)
Quando nel mio lavoro giornaliero di psicoterapeuta ascolto i pazienti, sofferenti di tante sindromi psichiatriche, ma in tutti i casi di pene da loro non sopportabili, di conflitti per loro insolubili, di ogni genere di difficoltà esistenziali da loro non affrontabili, non penso ad altro che al loro dolore e al modo di comprenderlo. La mia attenzione al singolo è tale da non permettere né di prendere appunti, né tanto meno di pensare a me stesso distraendomi dal paziente. (…).
Ma, nelle ore libere, i conflitti e i dolori dei singoli pazienti si uniscono in vaste sintesi, e queste vanno al di là dei problemi psichiatrici e psicoterapeutici, riguardanti l’origine, il decorso, l’essenza di una malattia psichica, la tecnica migliore per affrontarla e i miei errori nel farlo.
Problemi ancora più vasti si affacciano alla mia mente: qual è il destino dell’uomo? Il senso dell’umana esistenza? L’origine e il significato del dolore? L’origine del male? (…)
Può sembrare strano che, in quanto psicoterapeuta, io parli tanto di me, delle mie riflessioni su problemi che vanno al di là dei miei pazienti, e anche dei miei sogni. Ma ciò non ha la minima ombra di egocentrismo. Piuttosto significa che io sono diventato uomo nell’ascolto incondizionato dei miei pazienti, obbligato alla riflessione filosofica di problemi che riguardano me non meno di loro.(…)
Finisco questa mia prefazione con il dire..che interpretare i grandi disegni della Trascendenza, per quanto si possano vedere e comprendere, significa credere ad essa e dare un senso, una struttura d’amore all’esistenza umana.“ Trascrivo ora Il sogno della trascendenza: (22 gennaio 1979) “Alle sei del mattino ero ormai sveglio, come al solito. Sento di non aver dormito abbastanza. Dolore per una mia paziente, per la sue due bambine e il marito. Mi sentivo colpevole di un insuccesso, dubitavo di aver commesso qualche errore(…)
Non volevo disturbare mia moglie che dormiva accanto a me.
Lentamente sono caduto in un dormiveglia, in cui si è svolto un lungo e lento sogno, di cui rammento almeno quattro nitide visioni.
Una scala ripida che scendo con circospezione. Riconosco subito in essa, dormendo, la difficoltà della mia vita: mi meraviglio che si tratta solo di una scala ripida e non di un dirupo impossibile. Mentre la scendo e poi risalgo, provo un senso indicibile di gioia, non solo perché la scala è ripida e non quindi impossibile, ma perché mi è concesso di avere una difficoltà nella vita.(…)
Vengono a visitarmi spiriti buoni. Avverto la presenza di spiriti invisibili. Quale gioia trascendentale! Eccola quella gioia che aspettavo da anni, ancora una volta inattesa. Credevo ormai che non venisse più, sostituita da una fede che allora non avevo. Sono quei minuti in cui non si dubita di una presenza altissima. Qualcuno è venuto a prendermi per mano.
Tutto il sogno sembra svolgersi in un immenso edificio che credevo di conoscere e ora mi è sconosciuto. Da una piccola finestra guardo su verso una vallata scura e questa sembra aprirsi ai miei sguardi, divenire immensa.
Poi voglio recarmi nella mia stanza; e mi perdo così in un’ala dell’edificio ancora in costruzione. Stupito mi aggiro per quegli spazi, passo un ponticello ed esco dall’edificio per rimirarlo dal di fuori.
Quale stupefazione! : quella parte che dal di dentro appariva in costruzione è già finita dal di fuori ed è di una bellezza inenarrabile.(…) Mi rendo conto, in quel momento di essere in un altro mondo, già morto su questa terra, e di poter perciò guardare in modo tale che i sogni inconsci di bellezza, addormentati nel fondo della nostra anima, diventino il nostro mondo anche esterno, e nulla è perduto di ciò che si è dimenticato e che, anche solo per un attimo, era stato oggetto della nostra contemplazione.
Fatti pochi passi a destra, mi ritrovo su un’altura che dà su un burrone scosceso. Ho ancora la stessa emozione provata all’inizio del sogno: quel burrone è la sofferenza della mia vita ed è di una bellezza indicibile, è il senso della mia vita. Questa volta piango; piango dal dolore perché so che non sarò in grado di mantenere questa percezione, che tornerò a temere la sofferenza, misconoscendone il volto divino, che non saprò amarti, mio Dio.
Conclusione.
Quel pianto finale era una sintesi di gioia e di dolore sovraumani. Era una goccia di trascendenza. Se avessimo ogni giorno una tale goccia, vivremmo tutto il giorno aspettando quell’istante.(…)
Il sogno, in questi istanti, si trasfigura; sentiamo che la psicologia del sogno non basta; che il sogno diventa uno dei tanti canali attraverso cui Dio improvvisamente ci parla.
Per uno è la preghiera, la contemplazione;
per l’altro è la visione beatifica;
per un terzo è l’esperienza della meditazione.
Infinite sono le vie di Dio.
Già sveglio, vedevo una luce nello spazio scuro della camera; da dove veniva? Chi era? Chi era venuto a visitarmi?”
Dunque anche il sogno può essere un’esperienza religiosa. Ci farà bene curare, proteggere il nostro sonno, fare attenzione anche ai nostri sogni, e trascrivere quelli che per noi sono più significativi, rileggerli ogni tanto con attenzione, forse vi potremo trovare delle piste per continuare il nostro cammino di formazione integrale.
Quando ho visto questo video sono rimasto davvero sorpreso. Davide, in tanti anni di incontri e di dialoghi, non mi aveva mai parlato di questa sua arte, manifestando così uno dei suoi caratteri preminenti: la discrezione, un’umiltà che rischia di farsi chiusura. In queste opere però noi vediamo emergere il suo cuore più profondo, un cuore sostanzialmente estatico e pieno di bontà. Questi volti infatti comunicano una densità umana raramente riscontrabile nel casermone contemporaneo dell’arte, ricco di pagliacciate, di astrazioni concettuali, e, appunto, di brutali disumanità. Qui invece l’umano ritrova una misura, un volto, fatto di dolore e di pace, di sbigottimento e di dolcezza infinita, e specialmente di apertura all’infinito: questi volti sono sempre ri-volti a qualcosa che verrà, che ci sta già raggiungendo, e che a volte intravediamo tra lo stupore e la gioia. Grazie, Davide, e donaci altri frutti della tua arte.
Vediamo ora come Davide ha voluto presentarsi nel nostro sito:
“Perché il tema altro non è se non la vita che cerca una forma” (H.Schrade) Cari amici di Darsi Pace mi presento: nasco a Cesena il 25.12.1968 dove tuttora risiedo, e svolgo l’attività di artigiano nel settore dei trasporti. Dal 1997 sono sposato con Roberta e ho due figli, Anita e Damiano. Parallelamente all’attività lavorativa porto avanti un interesse per le arti figurative e in particolare per la scultura. Sin da piccolo questa facilità nel disegno e l’attrazione per le arti in genere fu considerata come marginale, e quel piacere per l’introspezione e le cose minime come timidezza. Certo, l’ambiente e i genitori non mi hanno aiutato più di tanto, ma devo anche confessare un’indole remissiva che mi portava alla fuga e all’insofferenza, che tra l’altro fino a qualche anno fa consideravo quasi un’elezione più che un difetto. Sin da piccolo ho avuto la sensazione che nel mondo dei grandi ci fosse qualcosa che non andava. Crescendo poi questa sensazione di alienazione dalla vita vera, a volte quasi totale, si era impossessata anche di me. Frequentando in seguito gli intensivi e parlando telefonicamente con Marco ho intravisto una via d’uscita, e con fatica comincio a rendermi conto di quanti mascheramenti e irrigidimenti mi blocchino in una dimensione senza speranza. Ho grande bisogno di darmi pace, e intravedo nel percorso aperto da Marco uno dei pochi “sentieri”di liberazione interiore veramente efficaci. Grazie a Marco, a Paola, e a voi tutti che partecipate tanto attivamente, nella speranza di riuscire ad abitare questa terra poetica-mente.
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