Darsi salute…….a partire dalla malattia

Commenti

  1. Un brutto anatroccolo dice

    Grazie per queste riflessioni. Credo che questi pensieri, gli stati d’animo e le paure siano qualcosa che ci accomuna tutti. Fanno parte anche della mia esperienza, a fianco del letto di malattia e morte di persone care, qualche volta come paziente o madre partoriente, anche in queste occasioni si è portate a pensare molto alla morte. In queste situazioni ho avuto modo di sentire con forza la grazia di una superiore presenza e la conferma di una continuità dell’esistenza. Credo di essere stata sostenuta in queste esperienze, anche nelle più dolorose, che tali rimangono, dalla preghiera, fatta di lacrime, di richieste e abbandono. Sono sicura che molte altre persone possano dare la mia stessa testimonianza. Ricordo di aver letto o sentito in televisione di persone che a seguito di incidenti o malattia fanno esperienze chiamate, se non ricordo male, di pre-morte e di aver pensato che ciò che raccontavano era confortante, dicevano di aver visto un tunnel e una luce che li attendeva e di aver provato grande gioia. Queste sono le stesse cose che mi ha riferito, in seguito ad una grave crisi cardiaca, una persona a me molto cara, aggiungendo anche altri vividi particolari e dicendomi “…poi mi sono risvegliata perché non era il mio momento (dovevo raccontartelo), prima avevo molta paura di morire adesso non ne ho più” e nella notte è serenamente spirata. Qualcuno obietterà: “Che stai dicendo?”, rispondo: “ Pregare per credere, anche prima di credere” e nella silenziosa meditazione fare spazio e attendere le sottili risposte. Un affettuoso saluto a tutti.
    P.S. La conclusione del discorso mi rimane oscura, spero che possiate spiegarmela in modo che anche un comune mortale (battutaccia) come me possa comprendere. Grazie

  2. Grazie, Alessandro, ho letto il tuo post con vivo interesse, ci si impara molto.
    Un abbraccio. Marco

  3. Grazie Alessandro, per questa tua profonda riflessione che mi ha dato occasione di pensare e ringrazio anche Brutto anatroccolo che ci ha voluto dare questa sua sentita testimonianza. Un caloroso saluto a tutti. Stefania

  4. giancarlo salvoldi dice

    Non ho mai ascoltato “omelia” più opportuna per la festa odierna dei Santi e dei Morti, e omelia non è ironico ma sincero.
    Hai scritto un inno alla Vita, un inno alla Fede nella Vita, un inno alla Fede che è fonte di Vita.
    Nella mia vita ho sbagliato approccio e ho troppo sofferto sul tema della morte.
    Tutto consiste nel credere e meditare, credere che vive in noi Cristo, la fonte della vita.
    Ti ringrazio molto, GianCarlo

  5. Condivido il fatto che l’interpretazione che diamo alla nostra vita, cioè l’orizzonte di senso cui scegliamo di dare credito, condizioni il nostro modo di guardare (anche) alla malattia.
    Tuttavia, rispetto alla definizione di malattia e di guarigione in relazione all’angoscia di morte, posta come tesi, mi pare ci sia uno scarto insuperabile su questo lato della vita, per come noi qui sperimentiamo la vita.
    Infatti c’è un abisso storicamente invalicabile tra l’esperienza di malattia / angoscia di morte che noi viviamo qui da un lato, e dall’altro la Parola che sana come compimento oltrestorico.
    Nel mio modo di vedere le cose, la metanoia è una disposizione che mi incammina, come risposta ad un amore che mi precede, ma la salvezza/salute è l’esito meta-storico di un atto sorprendente che solo l’Abbà dei cieli può fare.
    Il lavoro interiore, la ricerca spirituale, la fiducia che la morte non sia il punto finale della nostra vicenda ma un passaggio iniziatico sono modalità con cui possiamo smussare qualche angolo, levigare qualche asperità in un lavoro in-tensione-fiduciale-verso, nella consapevolezza però che questo non è il tempo del compimento/guarigione. Certamente se non mi identifico con la mia malattia, se riesco a sfruttare gli anfratti che la malattia lascia ancora aperti per esprimere la mia libertà e le sue passioni, se credo che la mia vita sia custodita nonostante tutto, posso depotenziare il potere malvagio della malattia. Questo però non mi porta ad una guarigione, ma ad un modo diverso di vivere la malattia. Pertanto, interpretando la malattia come angoscia di morte e la guarigione come azione del Logos rimane uno scarto tra lo storico (la malattia) e il meta-storico (la guarigione/salute) che rende impossibile l’esperienza della salute nel qui ed ora.
    Tuttavia, nell’esperienza quotidiana si vede una variabilità di situazioni sul piano fisico che a me pare non siano omologabili. Se infatti da un lato è possibile che una persona affetta ad esempio da sclerosi multipla possa percepirsi più “sana” perché meno angosciata di una persona che vive una semplice influenza come una catastrofe, dall’altro lato però mi pare che essere privi di patologie non sia condizione assimilabile a quella di chi ad esempio è costretto in un letto per la vita.
    Pertanto, mi piacerebbe potessimo arrivare ad una definizione di malattia e di salute (che naturalmente non ho) che riuscisse a tenere contemporaneamente conto delle dimensioni mentali, sociali e spirituali senza però perdere la dimensione fisica. C’è secondo me un aspetto della patologia fisica che ha una sua forza di compromissione della vita che va oltre l’angoscia di morte. Credo che questo abbia a che fare con ciò che, in termini estremi, si coagula nel cadavere inteso come “enigmatico avanzo” che lasciamo definitivamente nella risurrezione. Questo “avanzo” però, finché siamo vivi secondo il senso delle nostre categorie, pesa in modo insuperabile: non soltanto non possiamo prescindere dalla dimensione biologica, ma anzi, essa è condizione necessaria alla costruzione della nostra identità. Questa ambivalenza mi pare che dovrebbe essere integrata nella definizione di malattia e di guarigione per come viviamo tali condizioni nel nostro mondo.
    iside

  6. Alessandro da TS dice

    Ringrazio tutti e mi scuso perché, essendo molto lontano da una reale comprensione di cosa sia la malattia, non posso dire nulla di più. Caro anatroccolo, la conclusione del mio discorso è che la fede guarisce. Cara Iside, non so come risponderti. Forse, ancor prima che per l’angoscia della morte, l’uomo si caratterizza per la sua ignoranza; l’uomo è quello strano essere che sa di esistere ma non sa da dove venga, non sa dove vada, e non sa neppure cosa stia a farci su questa terra. In una visione materialistica dell’esistenza, è relativamente facile definire ciò che è malattia … in pratica ogni situazione fisica non piacevole! Se però pensiamo che la vita non sia solo materia/energia ma anche Intelligenza, diventa difficile capire cosa sia malattia e cosa non lo sia. La malattia potrebbe essere una cosa molto diversa da quella che pensiamo; potrebbe essere quella condizione del corpo/mente che ci impedisce di comprendere e raggiungere il nostro scopo e realizzare noi stessi.

  7. Caro Alessandro, ho letto il tuo post più volte ma mi è rimasta la sensazione di qualcosa che non torna.
    Il commento di Iside esprime benissimo questo qualcosa che non mi torna, e cioè quella dimensione fisico-biologica di sofferenza o limitazione che, per quanto puliamo e purifichiamo a livello spirituale, rimane come un muro insormontabile.
    I corpi spesso sono ingombranti, molto più di quanto i nostri ragionamenti e la nostra spiritualità vorrebbero.
    Anche se credo che la vita non sia solo materia/energia, questa dimensione, nella malattia, non può proprio essere evitata.
    Io auspico un darsi pace/salute in cui la dimensione fisica sia più integrata e discussa, anche se mi rendo conto di quanto sia difficile trovare un percorso comune, proprio per la diversità delle situazioni individuali.
    Comunque spero di leggere altri tuoi contributi su questo tema.
    Un caro saluto
    Antonietta

  8. Grazie Alessandro
    Riflettevo sulla tua conclusione: e’ una informazione genetica sbagliata che porta alla malattia e alla morte e forse è quello stesso errore genetico a predisporci a un comportamento egocentrato e bellico?
    Gesù non era soggetto alla morte e amava i fratelli, quindi non aveva questo errore genetico?
    Nella prima lettera di Giovanni 1Gv 3,14 c’è questa frase che mi sembra metta in relazione i due aspetti “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli”
    Un caro saluto

  9. Sì Alessandro, pare anche a me che dobbiamo fare i conti con la nostra ignoranza. Forse è una delle cose più difficili da sopportare pazientemente (Rm 5, 1ss): resistere sotto la pressione del male, ma anche del non sapere, rimanendo sospesi alla fiducia che il compimento salutare ci sarà donato. Questa mi pare sia una delle prove più ardue da attraversare, perché come al solito siamo su un delicatissimo bilico tra una legittima e doverosa sete di conoscenza e l’impossibilità di raggiungerla pienamente. Il rischio è che strattoniamo la realtà (e ahimé le persone) per far tornare i nostri conti, là dove ci è soltanto chiesto accoglienza ed affidamento.
    Anch’io come Antonietta sono molto contenta di queste occasioni che ci offri di riflettere su temi tanto coinvolgenti, almeno per me.
    Grazie!
    iside

  10. Alessandro da TS dice

    Cara Antonietta, penso che la guarigione inizi dal cuore, come ci ricorda Aldo. Chi ama i fratelli ha fiducia che la Vita dimora in lui e non sperimenta più ignoranza e angoscia di morte. Compiuto questo passaggio decisivo, rimane il corpo con le sue infermità. La medicina può aiutare, ed imparare a diventare il medico di sé stesso, può aiutare ancor di più; ma rimarranno sempre casi non guaribili, corpi infermi che chiedono perché. Ecco una possibile risposta suggeritami dal commento di Aldo.
    Quando pensiamo alla malattia del corpo, intendiamo il corpo individuale; eppure esso è metafora della comunità. Quando noi soffriamo nel corpo, viviamo questa sofferenza come solamente nostra, e spesso non siamo lontani dalla verità nel crederlo, ma non dovrebbe essere così in una comunità di fratelli, in quanto tutti dovrebbero soffrire allo stesso modo per la sofferenza di un membro … e così la sofferenza e l’infermità sparirebbero, arse dall’empatia della condivisione di un solo corpo. In conclusione, solo una comunità fondata sull’amore per i fratelli permette la guarigione, anche del corpo.

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