Guarire. Voglio guarire! L’ho protestato per decenni, direi da tutta la vita.
Fin da bambina, quando ho iniziato ad avere problemi di salute che implicavano la perdita progressiva della vista, dalla modalità medica di trattare la malattia e dalla modalità familiare di tentare di reggere dentro quel caos, ho assorbito un primo significato della parola “guarire”. A quel significato più strettamente fisico-clinico sono rimasta appiccicata appunto per decenni.
Il desiderio di vedere era divorante ed emerge chiaramente dagli esercizi del mio primo triennio in Darsi Pace. Ricordo bene gli inviti di Marco Guzzi (allora unico tutor anche per noi telematici) ad andare sotto questo mio desiderio per ascoltare il desiderio più profondo.
Non capivo. Cosa c’è di sbagliato nel mio desiderio di guarire, di vedere?
Nulla di per sé, mi scriveva marco nel blog. Tuttavia, sotto quel desiderio se ne nassconde uno più profondo che è un desiderio più autentico.
Eppure io non sentivo niente di più desiderabile di ritrovare la salute del corpo che, peraltro, negli anni si era piuttosto complicata ben oltre la vista.
La costituzione nel 2017 del Gruppo di creatività Culturale Darsi Salute mi ha dato occasione di riflessioni ulteriori su questo tema.
Per me, però, malattia e guarigione erano parole così cariche di significato sperimentato nel biologico che non riuscivo a sopportare nessun’altra sfumatura o lettura di quei termini.
Intanto, proseguiva il mio percorso in Darsi Pace. Finito il primo settennio, ripresi da capo, dal primo anno.
Un lavoro dove alla pazienza non è dato scarseggiare, insieme all’ascolto, ai sussulti e ai rigurgiti di ferite che tardano a rimarginarsi. Eppure nell’attrito doloroso della carne, toccando l’abisso dove è pianto e stridore di denti, ho imparato che sfondarlo è possibile per approdare, fosse anche solo per istanti, in una quiete che ha il sapore dello Spirito.
Quello scavo cominciava a dare frutti che non mi sarei immaginata.
Dopo 15 anni di lavoro interiore in Darsi Pace, ora il blocco cementificato della mia angoscia primordiale manifesta le sue crepe, lasciando così che arrivi sulla mia carne ferita, là sotto, un po’ di sollievo gocce lenitive che mi fanno respirare con meno dolore.
Allora si è fatto strada dentro di me un cambiamento del senso del guarire.
Con maggiore consapevolezza non soltanto della mia personale sofferenza, ma anche di quella degli altri, “guarire” assume tonalità più complesse, perché la malattia da cui sono chiamata a guarire non è soltanto nei fotorecettori della retina o nello squilibrio ormonale.
“Io voglio guarire” è molto più che la protesta della creatura colpita nei tessuti.
È un desiderio di guarigione totale, di unificazione, di integrità, niente di meno, all’incontro tra salute e salvezza, un incontro già presagito nell’etimo.
Quella speranza un po’ magica di guarire, quel desiderio un po’ ingenuo di pensare alla guarigione come ad una risoluzione più o meno automatica di tutti i miei guai hanno lasciato il posto ad un senso più spazioso della guarigione, innanzitutto sentita ora come un processo.
Guarire non è un atto unico, è un’opera graduale che corrisponde alla vita umana.
La guarigione mi si è mostrata come la dinamica trasformativa interna e costitutiva della vita. In questa visione, guarigione, conversione, trasformazione, trans-figurazione sono tutti sinonimi per dire l’inesauribile movimento della vita, nella penetrazione mai finita del suo mistero molto desiderabile e massimamente piacevole.
Cos’altro abbiamo da fare? Marco Guzzi ce lo ricorda spesso.
Gesù, nel vangelo di Marco, apre la sua vita pubblica con l’esortazione perentoria alla conversione e per tutta la sua vicenda storica va avanti guarendo e perdonando, rivelandoci cioè cosa sia meta-noia, il radicale rivolgimento di sé: un’opera sempre aperta, dove il compimento è un asintoto che si dissolve nell’eterno.
5 risposte
Grazie Iside, conoscendoti personalmente ormai da diversi anni, e avendo condiviso con te il lavoro del gruppo DarsiSalute, leggo in queste righe, e tra le righe, la mappa del tuo cammino così profondo verso la guarigione.
E non ho che da imparare, in quanto mi ricordi quanto sia importante, ogni momento, ri-incamminarsi verso quella Via.
Spesso ho l’impressione che la “tensione” nel ricercare la guarigione sia controproducente, mentre un “abbandono” sia molto più salvifico. Quanto può essere inutile aggiustare un corpo se l’anima è gelata e già sotterrata?
Non più pretese di salute, o di risoluzione di altre problematiche della vita, ma un lasciarsi dirigere e risanare continuamente nell’ascolto dello Spirito.
Un abbraccio
Pier
Grazie mille, cara Iside, di questa bellissima testimonianza che ci regali.
Anche per me, negli anni, il significato di “guarigione” è cambiato molto. Scopro, a poco a poco, grazie anche al nostro percorso, che guarire non significa più reclamare qualcosa che è tutto mio o solo mio; di visivamente ristretto al mio dominio.
Al contrario. Quando rinuncio alla pretesa di guarire, scopro che se mi riesce far star bene, anche solo di un grammo, un’altra persona in mia presenza, lì già mi sento rigenerato. Nella mia integrità, come scrivi anche tu.
Ciò porta con sé emozioni che avevo già sperimentato in passato a tratti, ma che si rinnovano potentemente. Tra cui un profondo senso di gratitudine e un sano orgoglio o autostima di me.
Un abbraccio e grazie ancora.
Simone
La guarigione, ma mi verrebbe da dire tutta l’esperienza della vita, è la ricerca di un sottile bilanciamento di concentrazione ed abbandono, mollare la presa e mantenere la mente penetrante come un laser, lasciare andare – lasciarsi andare e andare controcorrente. Mai rassegnati, ma morbidi, capaci di adattarsi, disposti al cambiamento come continuo rimodelamento di sé, eppure capaci di tenere la postura.
Grazie Pier, amico di viaggio.
Grazie Simone, perché il dolore ha sfumature diverse, ma ili cuore è lo stesso.
iside
Vi ringrazio. Pian piano, a fatica, le vostre parole mi conducono a pensare che tutto porta all’Accettazione. Se non accetto, metà della mia mente sta lottando contro l’altra metà, esaurendosi inutilmente. Se inizio il cammino verso l’accettazione, libero la mente, non solo il livello razionale e la mente troverà una soluzione che poi mi farà intuire.
Un caro saluto
In effetti, l’accettazione è un passaggio cruciale nel percorso di guarigione. Anche in questo caso il bilanciamento è sottile. Rischiamo infatti di intendere l’accettazione come una sorta di passività rassegnata, una specie di resa disperata, del tipo “tanto non c’è niente da fare”.
Al contrario, l’accettazione implica un continuo impegno della decisione per fare esattamente il contrario della rassegnazione: è la realistica realizzazione che, a partire da una data situazione che effettivamente non si può cambiare, possiamo sempre mettere in campo tutte le nostre energie per scoprire ogni anfratto lasciato libero dalla sofferenza, appropriarcene e farlo diventare luogo di fioritura. Affinché anche l’ultimo talento rimasto sia messo a buon frutto.
iside