L’Universo delle Psicoterapie (4): sono ancora attuali le psicoterapie oggi?

Commenti

  1. Densissimo post…dare senso alla sofferenza di uomini e donne nei loro contesti di vita mi sembra sia l’ approccio psicoterapeutico più adatto ai tempi che stiamo vivendo. E di sicuro quello di cui abbiamo più bisogno, evitando di inseguire modelli prestabiliti e ‘correttivi’ di normalità.
    Grazie, mcarla

  2. Caro Michele,

    pur non essendo del settore e conoscendolo marginalmente solo come curioso e (potenziale) “paziente”, ho tratto dalla lettura del tuo testo un paio di spunti che mi hanno suggerito qualcosa di molto interessante e che, per me personalmente, costituisce una novità, qualcosa su cui in precedenza non avevo riflettuto.

    Prima di tutto, ricordando quello che dicono alcuni psicoterapeuti (per usare una parola sintetica, anche se un po’ generica) come Maslow, che cioè essere perfettamente integrati in una società ammalata non è poi un grande… affare, è oltremodo stimolante la prospettiva – nell’ambito di una Nuova Umanità – di non essere chiamati a “guarire per integrarsi nel mondo”, bensì a “guarire per… cambiare il mondo”. Forse sembra una cosa banale, ma un ribaltamento di ottica di questo tipo potrebbe invece essere di grande sprone e supporto. L’idea di operare non solamente per stare meglio in questa società, per adattarsi a una condizione esistenziale alienante, ma al contrario per fare “nuove tutte le cose”, per creare ogni volta la realtà stessa, la trovo davvero trascinante, perché schiude la visione a un orizzonte assai più ampio.

    L’altro aspetto è come far sì che il proprio percorso di “guarigione” non riguardi solamente l’ambito personale e intimo, ma si espanda e “contamini” piano piano tutto quello che facciamo (anche se non siamo degli psicoterapeuti). Quando insegnavo, per esempio, ricordo che avevo il problema di capire quale posizione occupassi realmente, dovendo fare da tramite tra una sistema culturale e sociale subdolamente oppressivo e dei ragazzi in formazione di cui non volevo essere un semplice e passivo “istruttore”… Non volevo rassegnarmi a vestire i panni di un kapò del neoliberismo, insomma (per dirla schiettamente). E faticosamente trovai una strada, una maniera per dare senso alla mia attività, evitando di svendere completamente la mia o l’altrui… anima. Dunque, sarebbe oltremodo interessante riuscire a capire, a seconda del lavoro che svolgiamo o del tempo a disposizione di cui disponiamo (se siamo in pensione, come il sottoscritto ora), come sia possibile farsi tramite di una presa di (auto)coscienza collettiva e condividere più efficacemente le nostre esperienze.

    Non so francamente se sono stato chiaro. Comunque, grazie.

    Sergio

  3. Caro Michele, trovo molto interessante e chiarificatrice questa dissertazione sulle modalità che sono state, e che vengono, proposte dalle scuole psicologiche per la cura delle problematiche interiori. Come scrivi, è possibile affrontarle come patologie (alla stregua di quelle di pertinenza più medica), quindi comportamenti devianti da una presupposta normalità. Questo definisce come inadeguate non solo le condotte (in termini di pensieri, espressioni, modalità relazionali, ecc.), ma anche la persona stessa, rendendola diversa e malata, creandone facilmente uno stigma e violando il suo diritto ad essere amata così com’è. Un certo stile “rettificatore”, direi, al pari di un busto ortopedico che pretende di raddrizzare una schiena costringendola a star dritta come imposizione esterna.
    In Darsi Pace lavoriamo invece sulla comprensione e sull’accettazione delle nostre parti ferite e (anche per questo) distorte, il che mi sembra praticamente l’esatto opposto e assomiglia alle modalità educative più amorevoli, che si contrappongono a quelle coercitive.
    Quando una persona viene curata da uno specialista diciamo che “è in terapia” e questo viene confinato alle quattro mura e al tempo che viene messo a disposizione, nonché alle modalità e alla scuola di pensiero dello specialista stesso.
    La cura, secondo me, è invece qualcosa (o meglio qualcuno) che ti prende per mano e ti accompagna, sostenendoti e guidandoti, ma allo stesso tempo considerando continuamente le tue necessità e le tue affinità particolari. La cura più vera non ha tempo ne luoghi predeterminati, non ha punti di partenza ne di arrivo. E’ una presenza, come quella dei genitori e delle figure di riferimento della nostra infanzia e adolescenza, e della società più in generale nell’età adulta, che in una umanità più matura e relazionale in Cristo forse sarà sufficiente per crescere persone più libere, consapevoli, pacifiche e realizzate, senza la necessità di “entrare in terapia”, perché lo saremo sempre e nel modo giusto. In questo senso ogni tentativo terapeutico porta con sé un grosso limite. Credo che Darsi Pace, invece, per le sue caratteristiche possa costituire un luogo in cui questo limite viene almeno in parte superato e rappresenti una nuova forma di terapia, o meglio di cura, integrata dell’essere umano.
    Sarà interessante conoscere meglio e approfondire quanto proponi per le prossime uscite, grazie per questo utile lavoro di sintesi e riflessione.
    Pier Luigi

  4. Grazie, caro Michele, per questo contributo fondamentale, credo che faccia chiarezza su molteplici aspetti della cura delle anime. Un abbraccio. Marco

  5. Michele Grieco dice

    Maria Carla, è proprio così come dici, pur volendoci molte energie per liquidare prassi consolidate e ben organizzate nelle istituzioni pubbliche e private, difensivamente, che presumono di trattare bisogni umani e spirituali, pensiamo a quelle ecclesiali o politiche, la storia va nella direzione giusta e noi dobbiamo facilitarne il corso in ogni modo, confutando dettagliatamente le forme false della salvezza proposte come innovative o scientifiche.
    A presto, buona continuazione.

  6. D’ altronde lo stesso Krishnamurti, se non ricordo male, non considera certo come segnale di salute mentale l’ eccessivo adattamento a una società malata come la nostra…

  7. Mi pare che qui in DP facciamo una riuscita esperienza di sintesi dove la conoscenza di sé passa attraverso un andare dentro la dimensione psichica, amalgamato ad un percorso spirituale fino a sentirlo come iniziazione cristiana, per chi lo voglia. Mi pare però anche chiaro, dai commenti stessi che Marco Guzzi lascia qui e là, che DP possa essere considerato un po’ come un canovaccio su cui poi ciascuno traccerà altre linee di approfondimento. Del resto, se lo specialismo è andato degenerando fino alla cecità dell’intero, tuttavia ha delle risorse che dovremmo comunque valorizzare. Per cui se ho un disturbo allo stomaco comunque vado dal medico e cerco una soluzione o un sollievo possibile. O se ho una emotività opprimente magari cerco aiuto da uno psicologo che avrà bisogno di settorializzare.
    La sfida non facile è trovare un reale efficace equilibrio tra l’acutezza dello sguardo specialistico e l’abbraccio totalizzante del prendersi cura di quella persona lì, nella sua vita particolare. Saper essere flessibili abbastanza da avventurarsi nello specifico disciplinare per ritornare velocemente nello specifico della storia di ciascuno, sapendo transitare per ambiti che invece di considerarli estranei siano visti come espressione delle potenzialità della persona. Ho l’impressione che certi temi, seppure vitali, siano tabù intoccabili, come l’affidamento alla Trascendenza in uno studio psicologico dell’ASL o in un ambulatorio in ospedale.
    iside

  8. Non sono d’accordo con le critiche verso la psicanalisi espresse in questo post, mutuate dal pensiero di Marco Guzzi. Nel post è scritto:

    “Una psicoterapia che pretende di ricondurre ad un “ortos”, un ordine, o verso modelli ideali storici di un tempo trascorso, o di un fondatore di un approccio di scuola, o di una teoria, potrebbe rischiare di essere anacronistica e fuori dalla storia. Al posto di una psicoterapia o psicoanalisi individualistica che guarda soprattutto all’intrapsichico e all’interpersonale come forme di un IO che si adegua a mediare istanze personali, se pur meglio regolate e consapevoli, ma sempre conformi ad aspettative sociali consuete; ad un Io che meglio si adatta al mondo reale e alle sue prerogative, alle pretese imposte dall’alto, e che ha tutto sommato pochi gradi di libertà-movimento”

    A me sembra che invece la psicanalisi non voglia né curare né adattare alla società il soggetto in analisi. Per spiegare meglio ciò che intendo, cito l’articolo (editoriale) di R. Carli (Rivistadi Psicologia Clinica vol. XIV n° 2-2019, p. 6), che l’autore del post ha citato in bibliografia, ma che non mi sembra abbia integrato nel suo ragionamento:
    “Obiettivo della psicologia psicoanalitica è quello di aiutare l’altro, gli altri, a dare senso alla propria realtà, alle proprie emozioni, ai propri agiti, alle esperienze relazionali che si vivono quotidianamente. Lo psicoanalista capisce qualcosa dell’“altro”, solo quando l’“altro” dà senso a se stesso.”

  9. Michele Grieco dice

    Caro Sergio Fabbri,
    di non essere chiamati a “guarire per integrarsi nel mondo”, bensì a “guarire per… cambiare il mondo”, che tu citi, è uno tra i concetti cardine del mio post, e sono felice che tu lo abbia ripreso.
    Per il resto mi è chiaro ciò che dici, aggiungo che hai ben interpretato il taglio dell’analisi in corso, spingendoti giustamente a potersi noi rappresentare come “agenti”, agenti segreti o dichiarati che nei contesti in cui operiamo possiamo metterci di più in “relazione” con l’altro, gli altri, conoscere le variabili presenti e condividere il malessere, le domande di senso, orientando meglio l’apprendimento o le crescite, l’assistenza o i servizi, seguendo procedimenti più consoni rispetto a quelli impazziti, passando all’altro una competenza sul metodo,… che è sempre relazionale, quella di come trattare le relazioni in atto nel contesto, attraverso l’ascolto, la valorizzazione, la collaborazione, la riflessione, la creatività che operano al ben-essere.
    Grazie del tuo contributo.

  10. Michele Grieco dice

    Cara Iside, e anche caro Pier Luigi, infatti la mia riflessione non vorrebbe fare fuori le specifiche metodiche messe a punto dalle scuole, piuttosto vedere come si coniugano gli strumenti con la complessità dell’umano.
    Attualmente anche io mi rifaccio a dei metodi, pur non avendo o raramente incontrato persone con quei disturbi precisi riportati nei sacri manuali diagnostici. Eppure sono 30 anni che vedo persone: ogni volta mi pare una situazione nuova, un aspetto particolare, un bisogno specifico che non rientra necessariamente nei protocolli. Per cui ogni volta è sempre “ un mediare”, un applicare, un ascoltare fino in fondo, ritornare a considerare, promuovere lo svelarsi dei significati, e ancora considerare il tutto e la parte, condividere passi in avanti e fermarsi, o lasciare che sia la persona da sola a darsi ragioni e a farsi nuove domande. Come dire, è un mistero la persona mai del tutto definibile, e quindi curabile per giunta. È un cammino, che si vorrebbe fare non da soli ma in compagnia, ciascuno con le proprie competenze e risorse di cui è portatore. E sulle risorse non ci possono essere limiti.
    ????

  11. Michele Grieco dice

    Federico, sarebbe meglio che ci si firmasse anche con il cognome in modo da poterci conoscere e incrociare anche su altri social, oppure in Darsi Pace stesso.
    Per ciò che riporti sul tuo disaccordo, dicendo:
    “Non sono d’accordo con le critiche verso la psicanalisi espresse in questo post, mutuate dal pensiero di Marco Guzzi”,
    volentieri chiarisco che ciò che affermo non è un pensiero che mutuo da Marco Guzzi, perché:
    -nè Marco nè io abbiamo mai specificato, ancora, a quale forma di psicoanalisi o scuola specifica ci riferiamo.
    -considero che non esiste la psicoanalisi ma ormai le psicoanalisi, potremmo arrivare a contarne tipo una ventina o molte di più se solo ci rifacciamo al numero degli istituti psicoanalitici nella sola Italia
    – fortunatamente con l’esimio Prof. Carli ho sostenuto l’esame di psicologia clinica nel 1988, e per gran parte degli anni successivi ho approfondito e seguito molto la sua proposta.
    -comunque, Carli prima dice della psicologia psicoanalitica (che credo voglia riferirsi alla psicologia clinica di stampo psicodinamico, piuttosto che comportamentista per esempio), poi parla di altri modelli psicologici, infatti, e quando dice “psicanalista” sta affermando di voler ripensare alla psicanalisi come ha fatto da 20 anni or sono.
    Per cui sono d’accordo con Carli e con te, sulla funzione del dare senso. Eventualmente ci sarebbe da valutare come si vuol dare senso, e quale è l’AttraversaMento da fare per trovare il senso che sia non solo un’altra forma di idee o concetti alternativi (della mente caratterizzante egoica) pervasivi, ma una ri-generazione sempre di novità del proprio potenziale espressivo, verbale poetico e creativo.

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