E’ con grande piacere che condividiamo sul sito la chicca concertistica che due care amiche musiciste ci hanno voluto regalare all’intensivo di Campello sul Clitunno lo scorso mese di giugno.
Senza alcun accordo né preparazione preventiva, con un pianoforte trovato lì per caso, Daniela e Silvia hanno improvvisato la bellissima aria “How beautiful are the feet”, tratta dal Messia di G.F.Haendel. [Leggi di più…]
Come spesso accade mi ritrovo con grande piacere a poter parlare di musica. Propongo stavolta alla vostra attenzione, nel bailamme delle dotte, superiori e animate discussioni che mi hanno sin qui preceduto, un breve ma significativo stacco musicale, anzi due per la verità e lo faccio … prima che sia troppo tardi : visto tra l’altro che : “Qualche giorno fa Khameini, in un discorso moralissimo e castigatissimo, pensoso delle sorti della gioventù iraniana… ha dichiarato guerra totale alla musica … promettendo la prossima chiusura (per ora soltanto in Iran…) di tutti i Conservatori … nonché la radicale distruzione di qualsiasi strumento musicale.”- Domenicale del Sole 24 Ore del 15.08.2010. ! Ogni riferimento a citate gogne pubbliche è puramente casuale (NdR).
L’intento elementare è quello di rispondere alla domanda : può esservi una poetica del rock?
La mia risposta è : Penso di si. E cerco di dimostrarlo, con testi, musica ed immagini, attraverso il lavoro di due grandi figure artistiche della scena internazionale forse da noi non molto note :
Nick Drake, cantautore inglese, scomparso nel ’74 a soli 26 anni, e i Sigùr Ròs, band dalle lunghe suite al limite del mistico, di origine islandese nata nel ‘94 e tuttora molto attiva nel panorama globale (dei quali vi esorto caldamente a non perdere la visione del video che ho inserito). [Leggi di più…]
Breve stacco distensivo. Ogni tanto ci vuole pure qualcuno che rompa… gli schemi.
Grazie ad una provvidenziale segnalazione di mio fratello, un paio di settimane fa mi dispongo all’ascolto e alla scoperta di un altro gruppo indie, partendo dall’album la cui copertina mi attira di più. Perché ammicca i primi album dei primi Genesis : 200 Tons Of Bad Luck, e perché appunto 200 tonnellate di sfortuna sembrano proprio tante…. e … scopro nuovi sconfinati affascinanti orizzonti di creatività rock ..i … Crippled Black Phoenix, indie rock made in UK! Che mi permetto di raccomandarvi magari non come sottofondo per la meditazione quotidiana, ma per qualche sapiente e genuino momento di evasione dalla routine ordinaria delle nostre vite, all’esplorazione di mondi nuovi emotivamente traboccanti.
Mi pare opportuna, giunti a questo punto dell’anno, una piccola pausa di evasione dai temi oltremodo “impegnativi” e “cruciali” che abbiamo sciorinato nei recenti contributi offerti.
E, non potendo dimenticare che questo è il bicentenario della sua nascita, in quel di Żelazowa Wola, vicino Varsavia, e sotto il segno dei pesci (non è un caso!), trovo la giusta scusa per parlare (finalmente) di Chopin. [Leggi di più…]
Alcune domeniche fa ho avuto il piacere di ascoltare all’auditorium di Roma (Parco della Musica) il “Requiem di Mozart” eseguito dall’orchestra e dal magnifico coro dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.
Non è di Mozart che intendo parlare, ma del brivido che ho percepito durante l’esecuzione di uno dei brani eseguiti: Dies irae. [Leggi di più…]
Recentemente, facendo lezione, mi si è presentata nuovamente l’occasione di approfondire il discorso sull’atteggiamento di chi suona.
Quasi tutti gli esecutori hanno paura, in una forma o l’altra, di suonare in pubblico.
La paura più forte è quella di “perdersi”, cioè di non essere più presenti a ciò che si sta suonando, fino ad arrivare al blocco totale.
Tutti gli accorgimenti che adottiamo in fase di studio tendono a fortificare la memoria attraverso l’aumento della consapevolezza nei vari parametri musicali, il ritmo, la melodia, l’armonia, la strutturazione delle tensioni, ecc..
Tutto ciò è necessario, ma non è sempre garanzia di successo, né per ciò che riguarda la regolarità dell’esecuzione, né per il fatto che l’esecuzione stessa possa rappresentare, nella sua unicità e autenticità, un reale momento di arte.
Ho già parlato, in altri scritti, al riguardo, ma ora volevo affrontare il tema da un’altra angolatura, quella della gioia di suonare.
Quando preparo un brano da suonare in pubblico, ho bisogno di molto tempo. Questo perché non posso pensare di aver terminato lo studio finché non provo una particolare gioia, che è quella prodotta dalla percezione che ogni nota abbia un senso, che trovi la sua giusta collocazione, il giusto grado d’intensità.
Per arrivare a questo non basta conoscere “a mente” ogni suono, ma occorre trasformare il proprio corpo, ogni cellula, perché sia in sintonia con il significato che le relazioni fra le note comunicano.
A quel punto, ogni suono, libera tutta la sua potenzialità di armonici interni (il timbro, il colore di ogni suono si arricchisce), facilitando il legame con le famiglie di armonici dei suoni affini, creando ulteriori possibilità di nuove relazioni.
Non sempre si riesce, perché il cammino nella conoscenza e armonizzazione di sé è arduo, anche se costellato di momenti che hanno del miracoloso.
Durante le esecuzioni, può succedere di ricadere nell’assenza di Spirito, nella perdita di sé, fondamentalmente per l’emersione di parti di noi ancora rigide, i nostri blocchi animici, le nostre false credenze, che producono vari tipi di reazioni legate alla paura.
In questi casi è utile fare appello alla conoscenza strutturale del brano, alla tecnica, all’esperienza.
Tuttavia un buon modo di anticipare un nostro cedimento di fronte all’emersione della paura è l’attenzione verso la gioia che si sta provando, se scompare è segno che prima o poi ci perderemo.
È anche opportuno non scambiare la gioia con l’euforia, che è un’altra forma di perdita di sé.
Invece l’intima gioia che si prova nello scioglimento di ogni tensione egoica è la cartina di tornasole della nostra capacità di dare senso a ciò che facciamo.
Fabrizio, nel suo commento al mio secondo post, parlava di serendipity, lo scoprire, cioè, una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Anche se Fabrizio si è servito di questo termine, commentando la coincidenza dello slittamento della data del mio concerto, apparentemente casuale, con l’anniversario della morte del mio maestro Zadra, vorrei estendere il significato della parola “serendipity” per raccontare il lavoro che ogni artista dovrebbe compiere, per creare le condizioni perché questo evento possa accadere.
Quando sto per affrontare l’esecuzione pubblica di un brano al pianoforte, la forma di quell’opera ancora non esiste. Può nascere ogni volta di nuovo, ma non è detto che sia così, perché la forma del brano non coincide con la semplice esecuzione, anche corretta, di tutti i suoi suoni.
Arietta (1/2)
Se, infatti, io comincio a suonare con l’ansia di colui che vuole realizzare una precisa idea, uno schema mentale, l’idea che mi sono fatto del brano, studiandolo a casa, allora inizio solo una battaglia. Un conflitto in cui l’unico sicuro perdente è la musica.
Per quanto importante sia l’immagine che mi posso costruire del brano musicale, non deve diventare un simulacro da sostituire alla vera esperienza musicale.
Il pianoforte in sala è molto diverso da quello che ho a casa, ma, anche se portassi il mio strumento, questo lo percepirei completamente diverso da come suona in casa. Cambiando l’acustica, infatti, non solo cambierebbe il suo suono, ma anche la percezione di corrispondenza tra il suono e l’affondo dei tasti.
Che fare allora? Accettare la sfida, combattendo e piegando lo strumento e l’acustica alle proprie certezze, o allentare le proprie difese e rimanere in “ascolto”. Ma in ascolto di che, se abbiamo già detto che il brano ancora non esiste e che l’idea che ne abbiamo, non è una garanzia di soluzione al problema.
Da Sergiu Celibidache, un grande direttore d’orchestra con cui ho studiato, ho imparato che quello che conta in musica non sono i suoni, di per sé, ma le relazioni che tra questi si instaurano, volta per volta.
E queste relazioni devono tener conto, non solo delle altezze, e delle durate (per intenderci di tutto ciò che è scritto sullo spartito), ma anche del particolare suono che lo strumento produce in quel contesto, quindi dell’acustica della sala, che varia col variare dell’ampiezza, della sua forma e del numero degli spettatori che la riempiono.
Essere in ascolto, dunque, significa ritrovare quella condizione di silenzio interiore, la Coscienza pura, come la chiamava Celibidache, che è l’unico presupposto, la condizione originaria attraverso la quale siamo in grado di mettere in relazione i suoni fra loro, trovando e lasciando emergere, nell’adesso, i necessari rapporti di priorità.
È così che troviamo ciò di cui non conoscevamo l’esistenza, perché ogni esecuzione, se autentica, ci regala un’esperienza unica e irripetibile, un nuovo caso di serendipity.
Non è così anche nella vita e nei rapporti interpersonali?
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