Sono dieci anni che seguo un particolare corso di arti figurative, pittura e scultura, condotto da Elisabetta Di Carlo, psicoterapeuta e pittrice. Ogni lavoro viene introdotto da un preciso tema, simbolico o mitologico, che individua un percorso o un contesto biografico e psicologico, a cui i partecipanti si possono liberamente ispirare, entrando, al contempo, in stretto rapporto col materiale da usare.
Due anni fa il corso era ispirato alle carte dei Tarocchi, e ci è stato chiesto di portare un contributo di riflessione ai nostri lavori, rispondendo a delle domande specifiche. Una di queste domande chiedeva: “nelle teorie che utilizziamo per comprendere la realtà, quanto distinguiamo ciò che è essenziale da ciò che è superfluo?”
Nel rispondere, non ho potuto fare a meno di esprimere l’esperienza maturata, negli ultimi nove anni, durante i gruppi di approfondimento culturale, psicologico e spirituale, condotti da Marco Guzzi.
Spesso, quando osserviamo la realtà o ci confrontiamo con essa, ci troviamo in una posizione ego-centrata, ci identifichiamo, cioè, con quel complesso di esperienze, relazioni, idee, percezioni e immagini, che chiamiamo io, ma che in realtà “Io” non è.
Forse potremmo dire che tutte le teorie che utilizziamo per comprendere la realtà sono dei, più o meno, rozzi tentativi di afferrare ciò che per sua natura è inafferrabile dalla mente egoica.
Penso che, in questo senso, la carta della “Papessa” con la sua imperturbabilità, ma anche con i suoi segni contraddittori (vedi i colori del soprabito, il fatto di chiamarsi Papa al femminile, la mancanza di simmetrie) indichi il bisogno di silenzio, il silenzio da cui, solo, può sgorgare una parola di verità.
Penso che le teorie siano un contributo (a patto che siano avvertite come tali) allo sviluppo, all’affinamento della nostra capacità di descrizione della realtà, e della relazione che intercorre fra me e l’oggetto che osservo.
Questo è l’unico metodo che mi sento di seguire nel tentativo di comprendere ciò che vedo, sento, provo.
Infatti nel momento in cui, preso dal bisogno di fissare l’esperienza, do carattere universale a ciò che ho vissuto in ambito immaginativo, corro il rischio di forzatura del reale, di perdere qualcosa di importante, soprattutto il calore dell’empatia, oppure ciò che non metto chiaramente a fuoco, ma che, mancando, svilirebbe in un semplice dato l’oggetto della mia attenzione.
Già il fatto che io tragga, dalla miriade di sensazioni che colpiscono i miei sensi, un qualcosa che ritengo degno di senso, è frutto di una discriminazione, dovuta anche all’eredità genetica, all’ambiente in cui sono cresciuto o continuo a trovarmi, oppure semplicemente al particolare momento evolutivo in cui mi ritrovo. Questo rende ancora più difficile discernere fra ciò che vi è di essenziale, o di transitorio, nella scelta già solo di ciò che è degno di attenzione.
È solo nella meditazione profonda, ma ripetuta con disciplina e costanza, che posso vagliare le mie esperienze e riconoscere ciò che vi è di autentico o di indotto.
Steiner, nel suo libro “La Filosofia della Libertà” aveva indicato e descritto con accuratezza come noi entriamo in contatto con il mondo, però a volte si è spinto oltre le mie attuali possibilità di comprensione, per cui adotto il criterio di una sospensione del giudizio.
Non smetto di pormi domande sul senso delle cose e della vita, ma riconosco per vero solo ciò che vivo in prima persona, nel cuore e nel pensiero.
A questo proposito, la citazione che Elisabetta ha tratto dalle memorie di Cézanne; “…quando dipingo, respiro la verginità del mondo”, mi ha colpito molto, per la sua bellezza, capacità evocativa e per l’utilizzazione di parole appartenenti a realtà diverse.
Dipingere è un atto volontario di espressione e di descrizione del rapporto fra un io e il mondo che lo circonda.
Respirare è un atto involontario che è in relazione con la vita. È un’espressione del rapporto tra l’io e il mondo, ma più fisica, vitale, diretta. Ma è anche un’immagine dell‘ispirazione artistica (accogliere qualcosa, quasi respirando, dai mondi spirituali).
Queste due parole, così apparentemente distanti, si incontrano nell’indicare un rapporto fra soggetto e oggetto, e Cézanne descrive così il suo rapporto, come un rapporto ispirativo, aeriforme, olfattivo.
Ma cosa respira, lui, del mondo?
La sua verginità!
Il mondo che osserva Cézanne è vergine, quindi puro, intatto, non corrotto.
Ma, penso, nell’osservarlo, dipingerlo e respirarlo, lo feconda, gli dà una nuova vita, una vita che sorge dal passaggio attraverso il suo occhio, il suo mondo di pensieri e sentimenti… e la sua mano, tutto il suo corpo.
Sulla base di quanto detto in precedenza, nella risposta al quesito di E., si può parlare di un mondo vergine, nell’osservazione di un artista?
L’ego di un artista è, spesso, ipertrofico, gonfio; come può, così, vedere un mondo puro?
Forse Cézanne ci vuole indicare che quando dipinge, quando è ispirato, non è in uno stato di coscienza “normale”, ma è in reale meditazione.
Solo così può parlare di verginità, perché chi osserva, in quel momento, non è un io ego-centrato, ma l’Io superiore, il Sé spirituale e, per esso, il mondo è sempre vergine, originario, nuovo anche se eterno.
Anche a me, quando suono sotto ispirazione, può accadere, ma, nel mio rapporto con il mondo, scorgo più la presenza dell’elemento acqueo.
Allora, più che respirare, sento di immergermi in un mare di immagini di sentimento incontaminato, prezioso (perché quei momenti sono rari), che ha il potere di liquefarmi, di sciogliermi anche senza perdermi.
Mi sembra di seguire un percorso a metà tra il conosciuto e lo sconosciuto, una storia, un’avventura che l’anima vive e descrive allo stesso momento.
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