Pubblichiamo nella sezione audiovisioni la conferenza di apertura dei corsi Darsi Pace (durata 50 minuti), che Marco ha tenuto, come ogni anno, nel Complesso storico dei Padri Domenicani a Piazza della Minerva a Roma, il 10 ottobre 2009.
Abbiamo pensato di creare questa sezione “Audiovisioni” per raccogliere materiali più ampi rispetto a quelli normalmente pubblicati (che non superano i 10 minuti consentiti da Youtube) e che richiedono un tempo dilatato per ascoltare e riflettere con più calma sui temi di volta in volta proposti.
Abbiamo tutti bisogno di chiavi di lettura della realtà complessa che ci circonda, chiavi interpretative che ci aiutino a districarci nel caos e nella confusione predominanti.
Siamo alla ricerca di parole vere, sapienziali e le cerchiamo, affamati, con piena libertà, nelle diverse tradizioni e nei molteplici filoni culturali, come lo “scriba” di cui parla Gesù, che trae fuori dal suo tesoro cose antiche e cose nuove.
Questa sapienza che vogliamo non è una conoscenza concettuale: è piuttosto una sapienza pratica incarnata.
C’è bisogno di nutrire la nostra mente con idee buone, sane, positive, che mostrino la loro verità nella capacità terapeutica e risanante dei nostri cuori spezzati (non sempre spezzati, ma in parte, talvolta, spezzati…..).
L’argomento trattato quest’anno da Marco è molto importante per tutti noi e sarà approfondito anche da un’intervista di prossima pubblicazione (“Il desiderio e la paura della coniugazione dei sessi”), a cura di Massimo.
La domanda, molto semplice, potrebbe suonare così: che cosa ci impedisce di aprirci all’altro?
Ad essa ne seguono altre: cosa ci impedisce di accogliere quella parte di noi che ci fa ancora tanta paura? come sciogliere quei serbatoi di angoscia che ci trattengono dalla nostra vocazione profonda a fiorire sulla terra? ad essere canali di vita e di speranza? come coniugare le parti di noi più femminili, accoglienti, in ascolto, custodi della vita nascente, con quelle, tipicamente maschili, capaci di intraprendere un’azione nel mondo, assumendosi la responsabilità della realtà sociale e della storia del pianeta?
Impostare bene le domande è già un buon inizio per incamminarsi, perciò vi invitiamo ad aiutarci a farlo e a compiere insieme i passi successivi.
Buon ascolto!
Parte prima – La crisi della coppia come segno della svolta antropologica in atto
Il primo indizio, per chi segue la liturgia quotidiana della Chiesa, è la lettura di giovedì scorso. Cristo (Luca 12, 49-53) dice: non sono venuto a portare pace sulla terra, ma divisione, “e in una famiglia di cinque persone tre saranno divisi contro due e due contro tre, si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”. Il secondo (ancora Luca, guarda caso un medico, 12, 54-59), il giorno successivo: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice (…) e ti getti in prigione”.
Tutto l’opposto dell’idea zuccherosa del bravo cristiano, buono e un po’ babbeo. A sfogliare il Vangelo, e a leggerlo con occhi moderni, sembra quasi che ciò che più prema a Cristo sia, non tanto una velleitaria fratellanza, ma l’invito ad accogliere i conflitti in cui è immersa la nostra vita. A cominciare da quelli con i nostri familiari, i nostri padri, le nostre madri. “Non opponetevi al male”, ci dice. Restateci dentro, insomma. Non tiratevi indietro, non ignorateli. Scavate nel vostro male. Guardate ai veleni delle vostre relazioni senza menzogne, senza maschere. Anche a costo di mettervi contro chi vi sta vicino, anche a costo di snudare la spada. E nel caso, non limitatevi allo scontro sterile, alla scenata fegatosa. Ma “accordatevi” con il vostro nemico, che è sempre un amico mancato, “accordatevi” con le vostre tenebre. Non nel senso del compromesso. Ma, come sottolinea una lettura del monaco MichaelDavide, nel senso proprio degli strumenti musicali, “accettando di tornare sui nostri passi e magari ricalibrando la tensione delle corde più intime del nostro cuore e della nostra mente insieme a quelle del nostro corpo, per ricercare un’armonia sempre possibile e sempre da ritrovare con pazienza”.
Che il cammino di fede non possa prescindere da un lavoro sul proprio inconscio, sulle proprie strutture psichiche distorte, l’aveva capito bene anche San Paolo, quando riconosce che in lui “non abita il bene”, che ha il desiderio del bene, “ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7, 18): “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”, sintetizza in modo sconcertante.
Lavorare sui blocchi che ci paralizzano, sulle difese che ci portano ad agire in modo aggressivo, remissivo, sconsiderato, sapere ascoltare le parti malate senza rigidità, scoprirne le origini e liberarne la potenza distruttiva riconoscendole una a una, trascenderle e trasformarle nel talento che quasi sempre celano: questo ci dice in modo molto chiaro il vangelo. Meglio di un testo di psicanalisi.
Eppure, nella Chiesa, ma anche in tanti cammini spirituali pieni di buona volontà, il lavoro psicologico viene spesso ritenuto superfluo, quando non sospetto. Oppure accettato, ma come ambito del tutto scisso da quello propriamente spirituale: da una parte, insomma, una bella laurea in psicologia, dall’altra una mezzoretta di preghiera devota. O di meditazione buddista. Basta che tutto resti ben separato.
Il risultato, per chi guarda le cose con realismo, è spesso sconfortante. Capita, persino in religiosi dalla pratica costante e sincera, di avvertire manie di controllo che celano insicurezze infantili, pretese nevrotiche di perfezionismo spacciate per zelo, esaltazioni della sofferenza o della gioia che appaiono forzose, esasperate, prive di quel senso di liberazione che si trova nel linguaggio leggero del Cristo. Quando, in certi ambiti di fede, si accenna alla possibilità di affiancare alla preghiera un’indagine sull’inconscio, con un analista o magari con l’aiuto di qualche piccolo esercizio, ecco che scatta in automatico una barriera difensiva: un’alzata di spalle, uno sguardo sospettoso, un predicozzo che sa di scorciatoia.
Un pregiudizio, del resto, uguale e contrario a quello di molte persone che invece si muovono lungo il percorso della psicoanalisi o della psicoterapia, ma che guardano con sufficienza a una dimensione dell’anima più profonda. Una dimensione spirituale, appunto. Con il risultato che, a volte, la terapia libera effettivamente la persona dai blocchi che la tenevano legata, ma l’abbandona poi dentro deserti senza alcun orizzonte di senso e di speranza. Distruzione senza costruzione. Dunque, per certi aspetti, la lascia peggio di prima.
In questi giorni, dopo quasi ottant’anni di dinieghi da parte degli eredi, esce il Libro rosso di Carl Gustav Jung, il diario con cui il grande psicanalista svizzero testimonia il suo viaggio negli abissi della psiche. Un testo che si preannuncia straordinario: dove il cammino di ricerca dell’anima diventa un pellegrinaggio tra testi sacri, meditazioni, psicologia, letteratura, preghiere, sogni, archetipi e visioni folli che nulla escludono e tutto integrano, infischiandosene dei dogmi e puntando dritti alla potenza liberante dello Spirito. Senza la confusione in cui è scaduta la new-age, ma nell’atteggiamento creativo di San Paolo che invita a provare tutto ciò che serve per la nostra crescita scartando ciò che non serve, o di Sant’Ignazio che ci dice “todo modo”, tutti i modi sono validi se arrivano a Dio. Ecco, nell’esempio di un gigante del Novecento, la strada per una ricerca onesta e fruttuosa. Ma chi di noi ha davvero la voglia, la forza e il tempo per percorrerla fino in fondo?
Sono più che mai convinto – assistendo al pallido e tragico avanspettacolo che sembra essersi impadronito dello scenario pubblico, nel nostro paese – che l’unica salvezza possibile per il nostro paese (ma è un discorso che potrebbe essere riferito all’intero Occidente, nel suo lento e inarrestabile declino) è una rivoluzione dei cuori, una rivoluzione delle persone, una rivoluzione morale.
A me sembra infatti piuttosto chiaro che un paese dove la politica e la moralesono morte, non ha futuro. In un paese dove la politica e la morale sono morte, cioè, può succedere di tutto. Ed è quello che stiamo constatando, giorno dopo giorno.
Politica e morale, dopo dosi spaventose di cinismo e delegittimazione inoculate ad abundantiam, sono due parole che ormai vengono guardate con sospetto. E la loro abolizione è anzi salutata da qualcuno come un lieto evento.
Invece, se soltanto si analizzano le cose con lucidità, si scopre che non abbiamo scoperto ancora alternative praticabili alla mediazione politica come regola di convivenza, e alla morale come regola e interesse comune.
La storia insegna che l’assenza della politica produce anarchie e totalitarismi, mentre l’assenza di morale produce corruzione diffusa, sfruttamento e umiliazione dei più deboli, disinteresse per la cosa pubblica, disfacimento delle istituzioni, in fin dei conti infelicità. Sì, perché l’uomo non può vivere felicemente da solo, e come insegnavano padri della Chiesa da una parte, e filosofi illuministi dall’altra, io non posso essere veramente felice se la mia felicità è fondata sull’infelicità altrui.
Ruminando queste riflessioni, sono ritornato alla esemplare figura di Dag Hammarskjold(Jonkoping 1905 – Ndola 1961), diplomatico svedese che fu per due mandati consecutivi segretario generale dell’ONU, dall’aprile del 1953 fino alla sua morte, avvenuta in un oscuro incidente aereo nel pieno della crisi congolese. A Dag Hammarskjold fu assegnato il Premio Nobel per la pace alla memoria, proprio nel 1961. Alla sua morte fu ritrovato tra i suoi scritti una specie di ‘Diario Intimo’, che fu pubblicato in ogni paese, e tradotto in ogni lingua con il titolo Tracce di cammino.
p style=”margin: 0cm 0cm 0pt; text-align: justify” class=”MsoNormal”>Questo testo raccoglie le profonde riflessioni di un cristiano al servizio della polis. Dei suoi dubbi, della sua solitudine, del suo drammatico percorso, alla ricerca di pace e magnanimità tra gli uomini, specie nei posti più tormentati del mondo.
Dag Hammarskjold era un uomo che del “dare se stessi” fece un paradigma di vita. “Dare se stessi” scriveva, ” nel lavoro, per gli altri; basta che non sia un darsi tanto per darsi (magari con la pretesa che gli altri ti stimino). ” Dare se stessi era la politica di Hammarskjold. Dare se stessi era la sua morale. Ecco cosa scriveva quattro mesi di morire, nello strano incidente aereo (quasi certamente un sabotaggio) che spezzò la sua vita:
Io non so chi – o che cosa – abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno – o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d’Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l’impegno nella vita è l’oltraggio, e che l’umiliazione più profonda costituisce l’esaltazione massima che all’uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto.
“Non volevo morire senza aver capito perché ero vissuto. O, molto più semplicemente, dovevo trovare dentro di me il seme di una pace che poi avrei potuto far germogliare ovunque”
La sofferenza può essere una grande occasione di risveglio.
In questa intervista Terzani ci racconta la sua esperienza e ci indica la ‘via’.
Sono ormai tra i decani dei partecipanti ai Gruppi di Marco Guzzi e spesso ancora mi sorprendo, felicemente, a constatare come la mia vita abbia subito una svolta decisiva da quel non casuale incontro di tanti anni fa con Marco.
All’inizio si trattava di una manciata di attesissime riunioni di pochi ma attenti appassionati, in orari improbabili e luoghi suggestivi… la libreria Appunti Di Viaggio ….
Poi, inesorabilmente, i frequentatori sono cresciuti in spirito, consapevolezza e numero, gli incontri si sono organizzati in periodici appuntamenti mensili, e, anno dopo anno, si sono delineate le diverse gradualità di ingresso a quelli che ormai andavano assumendo la forma di veri e propri corsi.
Oggi i Gruppi sono tre, per i diversi livelli di esperienza sviluppati annualmente, che con cadenza più o meno bisettimanale si riuniscono presso l’Ateneo Salesiano in tre diversi giorni della settimana con ulteriori incontri infrasettimanali dedicati all’attuazione più approfondita delle pratiche e delle tematiche svolte nei corsi di base. Ad ottobre la programmata conferenza presso l’oratorio della Minerva apre ufficialmente il lavoro dei corsi e a giugno l’incontro intensivo di tre giorni in località Santa Marinella conclude la serie di appuntamenti che si è svolta durante l’anno. Non mancano ulteriori intensivi tenuti sempre da Marco in diverse sedi e date per offrire ai fuori sede e a chi non ha molto tempo a disposizione la possibilità di partecipare ugualmente al lavoro dei Gruppi.
Infine si è di recente felicemente, e spontaneamente, costituita l’associazione Darsi Pace per sperimentare in concreto, promuovere e divulgare l’attività maturata nei gruppi.
E da circa un anno la redazione che ne è scaturita ha dato vita al suo (questo) sito sul web che intende dare una espressione concreta al frutto del lavoro che i partecipanti producono nella partecipazione ai Gruppi.
Si tratta di un lavoro articolato, come bene dice Fabio nella sua straordinaria testimonianza contenuta nel Video della settimana, su tre livelli: culturale, psicologico e spirituale. Supportato dal (per ora primo) Manuale di riferimento Darsi Pace scritto da Marco e pubblicato dalle edizioni Paoline, e da altri testi dello stesso autore ugualmente correlati. Nel corso degli incontri è Marco stesso che propone le riflessioni, talvolta attraverso la lettura di brani della Bibbia altre volte dalla semplice ma opportuna analisi della realtà che ci circonda. C’è poi la possibilità di sperimentare direttamente il percorso che si segue attraverso la condivisione, con gli altri partecipanti, al momento dei passaggi più significativi che caratterizzano l’approfondimento delle proprie psicologie, e la pratica meditativa guidata. Non mancano infine un continuo conforto e l’ascolto sempre disponibile di Marco nelle istanze che di volta in volta possono richiedere una attenzione più dedicata.
Grazie a questo incessante lavoro, che si dipana solo facendolo, frequentandolo, io sono ritornato, e faticosamente cerco di raggiungere la fonte incontaminata divina che so in me. Non voglio più fermarmi, e anche dopo le cadute mi rialzo e continuo ad andare. Erodere l’egoità che si è stratificata (in me) nel corso dell’esistenza a volte mi genera scoramento per i risultati che non arrivano, e per le numerose, scontate, ricadute che mi mortificano …
ma è un lavoro che non so più smettere, un compito che non voglio smettere perché è ormai la mia natura stessa, la mia ragione. E le conquiste le raccolgo ogni istante nella mia vita, tutti i giorni.
Sono in cammino grazie a Marco e non mi fermo più.
Non ha certo bisogno di essere celebrato da me, ma mi piace poter qui riportare, come Fabio, una sua bellissima poesia che io ho particolarmente a cuore, porto sempre con me e non mi stanco mai di leggere e riascoltare:
L’ultima lezione
Non rifiutare l’afa di questo pomeriggio calabrese.
Non rifiutare la tua paura.
Non rifiutare la tua meschinità e il tuo orgoglio,
Il senso pungente della tua inferiorità e la percezione di una superiorità
Che giudica e pone sotto o sopra le persone
In base a scale di giudizio inflessibili e crudeli.
Tu non giudicare il tuo giudizio, non condannarti.
Non rifiutare quell’ombra che odi dentro di te,
Né quell’altra che la odia, non separarti da niente.
Non rifiutare l’amarezza della prima mattina
Né il tuo peccato più frequente.
Lascia che io ti dilati: tu
Contieni, accogli, accetta, risana.
Guarda con dolcezza la tua avidità di bambino defraudato.
Guarda con amore la tua arroganza, la tua chiusura.
Guarda alle tue piccolezze come guarda una madre
Al figlio che agita i pugnetti per respingerla piangendo.
Così amerai il tuo assassino e pregherai per lui.
Guarderai con dolcezza il persecutore, chi ti esclude crudelmente,
Chi ti umiliò e ti sconfisse, senza nemmeno riconoscerti.
Non rifiutare niente. Non giudicare. Non condannarti.
Con questo post inizieremo ad offrirvi nuovi e più ampi materiali audio e video di varia lunghezza.
Si tratterà di trasmissioni radiofoniche e di conferenze, come di parti di seminari intensivi o delle nostre sedute e meditazioni di gruppo.
Iniziamo con una serie di 8 trasmissioni che ho condotto, a partire da sabato 7 febbraio 2009, alle ore 10.50, per Radio Tre.
Il tema generale era:
Dalla fine all’inizio
Percorsi per ricominciare
Il programma, che si intitola Percorsi, ed è a cura di Elisabetta Parisi, affronta otto scenari fondamentali della vita contemporanea osservando appunto ciò che si sta consumando in essi e cosa stenta ad emergere come nuova configurazione.
Questo ciclo può considerarsi un’ottima introduzione al senso del nostro lavoro nei Gruppi Darsipace, in quanto ci mostra come solo un intenso processo di trasformazione interiore possa ormai alimentare e orientare quei mutamenti storici, politici, e culturali, che tutti avvertiamo come ineluttabili.
Il calendario delle trasmissioni è stato il seguente:
7 feb. La mancanza di senso e il bisogno di un nuovo orientamento
Sabato 10 ottobre alle ore 17.30 Roma – Piazza della Minerva 42 Verranno presentati i Gruppi di liberazione interiore che Marco Guzzi terrà nel prossimo anno. Alla conferenza
AMARE ALLA FINE DI UN MONDO Il desiderio e la paura della coniugazione dei sessi
seguiranno alcune testimonianze di persone che frequentano i nostri Gruppi.
In questa straordinaria fase storica di crolli e di ricominciamenti
abbiamo tutti bisogno di rinnovare in profondità le nostre esistenze
e di ritrovare slancio, entusiasmo, creatività, e quindi felicità.
I Gruppi Darsipace nascono nel 1999 per contribuire a corrispondere a questa esigenza
di rinnovamento interiore, ma anche storico-culturale.
Il cuore della nostra ricerca consiste nell’integrare tre livelli formativi
ordinariamente separati tra di loro:
il livello culturale e mentale,
quello psicologico e affettivo,
e quello più propriamente spirituale,
nell’orizzonte di una riconiugazione tra fede cristiana e modernità.
Gli strumenti utilizzati nella nostra sperimentazione sono perciò molteplici:
riflessione teorica, lettura meditativa e contemplativa della Parola di Dio,
testi poetici, esercizi psicologici di autoanalisi, meditazioni guidate, condivisioni;
tentando di mantenere tutto nella più piena, cordiale, responsabile, e incarnata comunicazione umana. Senza specialismi di sorta cioè, ma anche senza vaghezze spiritualistiche.
I Gruppi si incontrano circa 15 volte (per 3 ore) lungo l’anno.
La sede è l’Università Salesiana di Roma
(Facoltà di Scienze dell’Educazione)
P.zza dell’Ateneo Salesiano n. 1
Quest’anno avremo unGruppo di 2a annualità e quello di Approfondimento.
Avvieremo anche unGruppo di 1° annualità, aperto alle nuove persone.
Sette musulmani europei su dieci sostengono di digiunare durante il mese del Ramadan, il 60 per cento in più rispetto a 10 anni fa, mentre tra i cattolici è un problema rinunciare alla fettina persino nel giorno del Venerdì Santo. Ogni cento musulmani 32 si dichiarano credenti, ogni cento cattolici appena 16. Ma il dato più singolare, perché segna la tendenza dei prossimi anni, è quello sull’età: mentre nelle chiese crolla la presenza dei giovani, i più attivi nelle moschee sono proprio i fedeli che hanno tra i 15 e i 34 anni.
Il quadro emerge da una recente indagine dell’Ipsos, che dal 1989 al 2009 ha studiato le abitudini e i comportamenti nell’Islam europeo, di fatto ormai la seconda fede del Vecchio Continente. Cifre che fanno riflettere. E che pongono molte domande. Soprattutto a chi islamico non è. E che magari, come tanti islamici, vive il bisogno forte di un rapporto intimo e profondo con Dio.
Certo, la tara va fatta: il fervore religioso nell’islam europeo riflette un bisogno di identità, soprattutto per tanti extracomunitari ancora in cerca di una vera integrazione. Pregare insieme, digiunare insieme è una prova di forza, una sfida al mondo moderno vissuto come forte nel senso di ostilità ma debole nelle certezze, un modo per contarsi e rinsaldare i legami di protezione reciproca. E sul versante opposto, come sottolinea un recente intervento dello scrittore Pascal Bruckner, sul Domenicale del Sole 24 ore, “per molti cattolici il Ramadan è una delle molte manifestazioni di arretratezza, una sofferenza inutile che milioni di uomini e donne si auto-infliggono per segnare la propria differenza”. Per non parlare del sospetto che spesso l’Islam suscita in chi ha a cuore le conquiste consolidate delle democrazie laiche europee, dai diritti della donna alla libertà di espressione.
Tutto vero. Eppure. Eppure oltre a cercare ragioni sociologiche e a diffidare, un cattolico o un protestante non possono fare a meno di guardare con stupore allo coerenza con cui i musulmani osservano le pratiche della loro religione, sia quelle legate al cibo nei giorni prescritti sia quelle previste per le preghiere quotidiane e per gli obblighi in genere del Corano. Una disciplina che non trova neppure un pallido riscontro tra le file dei battezzati. E domandarsi: perché persino tra quei pochi che hanno scelto di vivere la fede cattolica con impegno è così difficile trovare la costanza quotidiana della fede che nel mondo islamico erompe anche tra persone molto semplici e prive di particolare vocazione mistica? Perché persino tra chi cerca un rapporto più complesso con la spiritualità (come i gruppi di Darsi Pace in cui si sperimentano pratiche meditative e autoconoscitive da esercitare con continuità) è così difficile trovare un quarto d’ora al mattino per mettersi in silenzio e meditare?
Audalla Conget, ex monaco cistercense convertito all’Islam e ora segretario della Giunta islamica di Spagna, nel 2006 scrisse una lettera a Benedetto XVI in risposta al celebre discorso di Ratisbona sulla violenza congenita dell’Islam: “Critichi la nostra fede per dissimulare la tua profonda ammirazione per la nostra intensa e perseverante adorazione. Una fede incrollabile che ti spinge a chiederti, senza portare risposte convincenti, perché siano così pochi i musulmani che si convertono al cattolicesimo. E perché tanti di coloro che sono stati attivamente cristiani in seno alla Chiesa riconoscono nell’Islam il nostro vero posto nel cosmo. In verità , è molto doloroso vedere, quando si è cristiani, le moschee riempite ogni venerdì di uomini e donne di ogni età, la fronte spinta al suolo nel più sincero atteggiamento di accettazione della volontà di Dio. Il fatto che si tratti soprattutto di uomini in maggioranza giovani è qualcosa che richiede attenzione. Vedere le chiese vuote, a eccezione di poche donne anziane disseminate fra i banchi, ha qualcosa di molto doloroso”.
Già, non è che dietro la nostra comprensibile e ragionevole diffidenza verso i precetti del Corano, sotto sotto, noi credenti impigriti nutriamo un po’ di invidia per i fratelli islamici? Perché ci pesa così tanto dedicare alla meditazione almeno una piccola parte di quel tempo che ci viene naturale passare su Internet, al telefono o davanti al televisore?
L’essenziale è solo che ogni giorno si trovi un angolo tranquillo in cui avere un contatto con Dio.
Come se non ci fosse nient’altro al mondo!
(Edith Stein)
Ma cosa amo, o Dio, quando amo te?
(Sant’Agostino)
Scegliere di stare con il Signore.
Scegliere di trovare degli spazi, dei momenti, delle occasioni per stare davanti a Lui, così, semplicemente, e lasciare che Lui ci inondi della sua luce e della sua pace.
E’ un’esperienza semplice, che può lasciar perplessi, forse perché siamo abituati ad avere davanti a noi un interlocutore concreto, “visibile”, e se non c’è, ci sembra di stare davanti al vuoto, all’aria, al vento….. E poi pensiamo che la vita è piena di cose più importanti che stare li a far niente…
Non ci accorgiamo che forse, in realtà, non c’è niente di più importante di quel momento in cui non facciamo niente se non stare con il Signore. Come faceva Maria, che stava ad ascoltarlo.
Perché quel momento forse è quell’inizio che ci permette di fare poi bene il resto.
Non dobbiamo temere che la preghiera ci porti ad isolarci, perché gli altri sono sempre presenti, attraverso noi; li portiamo sempre con noi.
La preghiera è un grande mistero, ed è anche un grande dono: a tutti è data la possibilità di dialogare con il Signore. In fondo tutto il creato, tutte le creature, sono avvolte, partecipano a questo silenzioso dialogo.
Noi esseri umani, nel tentativo di “contenere” la vastità della vita, siamo giunti a dare un nome a tutto, anche alla morte, all’amore, a Dio, come a qualcosa di tangibile, conoscibile; anche l’eternità.
In realtà della vita, del tempo, della morte, della “fonte” di tutto non sappiamo niente, proprio niente, tranne le notizie che ci ha dato Gesù, e poi nel corso della storia dell’umanità coloro che hanno cercato di esplorare il mistero della vita.
Ogni tanto, davanti alla realtà del mondo, davanti ai dubbi, alle fatiche del vivere, sentiamo il bisogno, la necessità di sapere, di capire più in profondità qualcosa del mistero della vita, perché ci accorgiamo che alla fin fine le risposte che ci diamo sul male, sulla morte, sulla sofferenza, sull’ingiustizia non arrivano all’essenza, si fermano prima, girano intorno senza toccare mai il centro.
E ci siamo anche accorti che forse è proprio la lontananza dalla fonte, il dialogo che abbiamo interrotto con il Mistero, la causa di come va il mondo. Ciò che facciamo, le nostre azioni, le nostre scelte, non nascono da un fondo di pace e di luce, ma spesso dalla confusione che portiamo dentro di noi. Ce ne accorgiamo dai risultati: le nostre azioni non contribuiscono al bene, alla pace, ma spesso aumentano la confusione già presente.
Restare agganciati alla sorgente, attraverso la preghiera, ci permette di orientare meglio le nostre scelte, le nostre azioni.
L’abitudine a pregare mette ordine nella nostra vita, regola la nostra giornata, le dà un valore che diversamente non riusciamo ad intravedere.
La preghiera ci rende ogni giorno consapevoli del profondo legame che c’è tra noi e il Padre. Un legame che è da sempre, mai si è interrotto. Scopriamo con gioia di non essere soli al mondo, ma costantemente nelle braccia di Dio.
Se decidiamo di fermarci, di vivere questa relazione con il Padre, la consapevolezza di questo dono straordinario che ci è stato fatto, ci consolerà lungo il cammino della vita.
Si, è difficile a volte sentire la sua presenza. Forse anche perché ce l’aspettiamo attraverso modi e tempi che sono più nostri che suoi. Noi aspettiamo una sua risposta per lo più con la mente, con la testa, come quando normalmente qualcuno ci parla; ma forse lui ci sta parlando ad un livello più profondo, forse ogni volta che avvertiamo dentro di noi qualcosa di inspiegabile, quando sentiamo dentro di noi gioia, voglia di ridere, o di piangere….
“M’illudo, non so: a volte, oh, raramente!, sento invisibili mani passare sulla fronte e liberarmi dolcemente da tristi pensieri: allora non sono solo a sopportare la lunga notte?” (Padre Turoldo).
La fatica sta anche nel trovare uno spazio per lui, per restare in ascolto, anche del suo silenzio.
Il silenzio che attraversa i momenti in cui decidiamo di stare davanti al Signore, è uno spazio che all’inizio può lasciarci dubbiosi, ma che piano piano ci diventa familiare, pacificante, carico di tenerezza, qualcosa che poi aspettiamo con gioia, come un appuntamento speciale.
“Rientra dentro di te. Chiudi gli occhi, lascia gli attrezzi, i desideri e le preoccupazioni. Assapora il silenzio, ricomponi l’unità. Allora forse ritroverai Dio in fondo a te stesso” ( Lanza del Vasto).
Vorremmo avere subito la possibilità di metterci in contatto con lui. E invece lui, forse, ci propone la pazienza, di restare semplicemente in ascolto, con le lampade accese, come le dieci vergini. Non siamo noi che decidiamo quando è il momento, quando lui verrà. In fondo, nella preghiera, sperimentiamo la nostra impotenza.
Però ricominceremo a gustare il piacere dell’attesa, come quando aspettiamo un caro amico che, siamo certi, arriverà da un momento all’altro.
Che abbiamo, in fondo, di più urgente da fare? Se cerchiamo di rispondere onestamente a questa domanda, forse resteremo stupiti delle poche cose “importanti” che dobbiamo fare…
“Che il nostro sia un vivere davanti a te ogni giorno”, c’era nella professione di fede della prima domenica di Avvento. Si, forse è la cosa più importante.
Etty Hillesum scriveva così in quel periodo storico così difficile e inquietante in cui viveva:
“Dio mio caro, viviamo in tempi angosciosi. Questa sera per la prima volta mi trovo sdraiata al buio con gli occhi che mi bruciano perché, una dopo l’altra, mi sono passate davanti le scene della sofferenza umana.
Voglio prometterti una cosa, o Dio; è proprio una cosa piccolissima: non caricherò mai il mio oggi con le preoccupazioni per il mio domani, sebbene ciò richieda un certo allenamento. A ogni giorno basta la sua pena. Ciò che realmente conta, o Dio, è soltanto che noi difendiamo quella piccola parte di Te, che è in noi.
Ahimè, non sembra che Tu possa fare molto per la nostra situazione, per la nostra vita. Né io ritengo Te responsabile…ma noi dobbiamo…difendere fino all’ultimo la Tua dimora dentro di noi.
Vi sono alcuni, è vero, che anche in questo momento si preoccupano di mettere in salvo i loro aspirapolvere e le posate d’argento invece di salvaguardare Te, caro Dio. E ci sono quelli che vogliono mettere in salvo i loro corpi, ma ormai sono ridotti a null’altro che a un luogo dove si rifugiano mille paure e sentimenti amari. E dicono. “ Non permetterò loro di prendermi nelle loro grinfie!” Ma dimenticano che nessuno di quelli che sono nelle Tue braccia è nelle loro grinfie.
Comincio a sentirmi un po’ più in pace, o Dio, dopo questa conversazione con Te….Cercherò di fare in modo che Tu ti senta sempre a casa, anche se dovessi essere rinchiusa in un’angusta cella…Non posso prometterti niente per domani, ma Tu vedi che le mie intenzioni sono buone. E ora mi arrischierò a vivere questa giornata. Incontrerò moltissime persone e sarò nuovamente assalita da cattivi presagi e da minacce, simili a un esercito nemico che cinge d’ass
edio una fortezza inviolabile….” (diario 1941-1943)
Possiamo fare a meno di Lui? Nella preghiera in fondo confessiamo che non possiamo fare a meno di Lui, anche se a volte è così lontano, se la nebbia lo avvolge, se ci sembra che forse ciò che cerchiamo, Colui al quale ci rivolgiamo, forse non ci ascolta…
Ma nonostante tutti i nostri dubbi, noi siamo sempre in relazione con Lui. Anche se non ce ne accorgiamo. Come un bambino che è sempre avvolto dallo sguardo tenero della madre. In fondo pregare è sentirsi in ogni momento della giornata e della notte sotto lo sguardo amorevole e dolce di Dio, come un bambino che si sente sempre, qualunque cosa faccia, sotto lo sguardo protettivo della mamma.
“Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come bimbo svezzato è l’anima mia” (Sal 131,2)
Molti uomini e donne nella storia del mondo lo hanno cercato; molti lo hanno trovato.
Dentro il caos della vita forse abbiamo dimenticato questa grande verità, che possiamo dialogare con Lui.
Teresa d’Avila, scriveva: “E’ una grande misericordia da parte sua (di Dio…) l’aver comunicato queste cose a persone da cui possiamo venire a conoscerle perché, quanto più sapremo di lui, tanto più lo loderemo. Tutti noi abbiamo un’anima, ma poiché non l’apprezziamo come merita di essere apprezzata, non riusciamo a penetrare i grandi segreti che racchiude in essa”.
(da “Il castello interiore”).
Decidiamo di fermarci, di invitare ad un momento insieme l’unica “Presenza” che nel profondo di noi stessi percepiamo come colei che “ci aspetta”, e sempre ci aspetterà con gioia e tenerezza. L’unica presenza capace di farci ritrovare la bellezza, l’entusiasmo e il coraggio della vita. Perché… ” Egli è la nostra pace” (Ef 2,14)
“State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie”.(1Ts 5, 16-18)
A volte mi pare che l’azione politica più congeniale a questo tempo debba essere una sorta di esorcismo.
Mi sembra a volte, molte volte in realtà, e sempre più spesso, che il nemico contro il quale sta combattendo la nostra umanità, per non soccombere, piombata per sempre nella sua disperazione, sia qualcosa di terribile, difficile perfino da descrivere.
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