Una parabola della cultura Sufi narra la percezione che dei ciechi hanno della forma di un elefante: chi aveva toccato un orecchio riferiva che l’elefante aveva una forma grande, grossa, ruvida e larga come un tappeto; chi aveva toccato la proboscide riferiva che aveva la forma di un tubo vuoto in mezzo; chi aveva toccato le gambe riferiva che aveva la forma di una colonna tornita.
Quante volte, nella mia esperienza quotidiana, scambio ciò che vedo con i miei occhi miopi, il piccolo frammento di mondo che mi sta sotto il naso, per la ‘realtà’ della cosa.
Quante volte, incapace di attesa, di ascolto paziente, investo il ‘reale’ del cumulo di mostri che mi abitano dentro!
Una delle tante notizie di cronaca: “Ucciso per aver fatto pipì. L’aggressore si giustifica: Ho avuto paura e ho sparato”. Quanto di ciò che vediamo è ‘costruzione’, frutto di una percezione falsa, parziale e distorta del reale?
Una metafora della spiritualità indiana esemplifica così le distorsioni del nostro modo comune di vedere: “Un uomo entra in una stanza in penombra. Scorge in terra un serpente ed è colto da paura. Avvicinandosi, si accorge che non si tratta di un serpente bensì di una corda e la paura si dissolve istantaneamente”.
E’ esperienza quotidiana: nella penombra della mia coscienza poco illuminata ciò che vedo è più proiezione dei miei stati interni che conoscenza di ciò che è.
Nell’ambigua visione della penombra attribuisco spesso al reale il rimosso di emozioni e pensieri, i fantasmi che mi abitano dentro. Così, avvolta in una fitta nebbia di percezioni distorte, finisco per vivere di fatto come in una specie di sogno.
Gli studi sulla percezione sociale ci dicono che vediamo più facilmente ciò che vogliamo vedere, tendiamo a non vedere ciò che non vogliamo vedere, e/o a distorcere ciò che percepiamo in ciò che vorremmo percepire.
Difese emotive possono addirittura rendere invisibili alcune realtà, situazioni di sofferenza che non riusciamo a contenere. Ad esempio, vedo più facilmente e sono disposto a venire incontro al bisogno materiale dell’altro ma chiudo spesso gli occhi davanti alla sofferenza psicologica, spirituale. La paura di entrare nelle stanze buie della mia casa mi tiene a distanza.
Il rientro a casa e l’incontro con il ‘reale’ è un lungo lavoro di ‘darsi pace’, di riconoscimento e scioglimento di tutti i risentimenti, odi, rancori, paure che ci annebbiano la vista e ci rendono ‘ciechi’.
Il gruppo Darsi Pace è una palestra in cui mi alleno a rientrare in casa, a riprendere possesso delle stanze chiuse da sempre, in cui imparo ad aprire porte e finestre per far entrare la Luce, aria e sole nelle stanze buie dei miei risentimenti e delle mie paure.
Quando, attraverso la pratica meditativa, prendo contatto con il mio respiro, con il mio corpo che respira, quando mi alleno ad accogliere con un sorriso ciò che appare all’orizzonte della mia coscienza e a non identificarmi, a lasciarlo andare, quando mi alleno ad abbandonarmi ad un contenitore più grande di quello che considero il mio io, la mia ansia si placa, le tensioni difensive si allentano, e mi apro alla fiducia, ad accogliere ciò che ‘è’ così com’è, senza forzature, senza aspettative, senza giudizio.
Allora, diradata la nebbia fitta delle mie percezioni distorte, accade come un miracolo: ciò che all’esterno percepivo come pericoloso, persecutorio, senza senso, si rivela mio amico e mi guida oltre e vedo i nessi tra le cose e rendo grazie per tutto.
Ogni giorno, nella fatica del vivere quotidiano, preda dell’ansia, della paura, del bisogno di controllo, ricado nelle paranoiche percezioni, nel sonno illusorio, e ogni giorno, nella fedeltà alla pratica meditativa, ricomincio a coltivare il risveglio, in una continua alternanza di frammentate, distorte visioni e di acquisizioni di senso.
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