Vorrei condividere con voi questo passaggio del libro di Enzo Bianchi “Il pane di ieri”, perché mi sembra una metafora molto bella della vita interiore, e della “pratica” quotidiana e concreta di cui la nostra interiorità ha bisogno per non avvizzire.
[…] Ho imparato molto presto a scoprire autentici tesori di umanità in poveri uomini cenciosi che tuttavia conoscevano bene la vita perché l’attraversavano nella fatica, nell’estraneità, nell’ascoltare molto e nel parlare poco.
Uno di questi grandi maestri anonimi […] è stato per me un vicino di casa, Pinot: non sposato, viveva con una nipote ed era sovente preso in giro per una malformazione al cuoio capelluto […]. Aveva un bellissimo orto in un terreno che in seguito dovette cedere per fare spazio alla costruzione della cantina sociale del paese: Pinot ogni mattina scendeva nell’orto a lavorare per poi tornare a casa verso le undici con ortaggi e verdure che servivano per il pranzo e la cena.
Bambino di una famiglia che non possedeva appezzamenti di terra perché il padre non era contadino, io ero molto incuriosito dal lavoro agricolo e sovente, fin da piccolo, mi accodavo a Pinot e scendevo con lui nell’orto.
Quell’uomo semplice e buono mi ripeteva sempre: “Ricordati che per fare un orto ci vuole acqua, letame, ma soprattutto ciuènda!”.
Sì, per l’orto non basta che ci siano gli elementi che fanno crescere una pianta, ci vuole anche la ciuènda, la recinzione fatta di canne – più tardi sostituite dalla rete metallica – e di pali che protegge l’appezzamento di terra dagli animali che minacciano di devastarlo: cani, conigli, a volte il cinghiale, più raramente anche altre persone attratte dall’idea di poter raccogliere senza aver seminato.
Così, alla fine dell’inverno e anche ogni volta che si apriva qualche varco, aiutavo Pinot a riparare la ciuènda e più che i segreti della coltivazione degli ortaggi imparavo una lezione di vita perché l’orto è una grande metafora della vita spirituale: anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L’orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo.
Mi sono quindi appassionato molto presto all’orto, […] Così, a quattordici anni chiesi in dono a mio padre di affittare per me un fazzoletto di terra dove potessi avere il “mio” orto. Venni esaudito e da allora non sono mai riuscito a vivere senza accudirne uno […]
Ripenso sovente con gratitudine a Pinot, che mi insegnò tramite l’orto ad avere un sano rapporto con le “cose”: non mi spiegava solo a piantare, seminare, far crescere, ma mi aiutava anche a capire perché occorre seminare in se stessi, coltivare se stessi, far crescere se stessi e attendere i frutti.
(Enzo Bianchi, “Il Pane di ieri”, Einaudi 2008)
Queste parole di Enzo Bianchi mi hanno spinto anche ad un’altra riflessione: la pratica concreta delle cose ci insegna molto di più delle nozioni imparate solo con la testa.
Certi concetti non si possono apprendere solo con la mente: possiamo capire razionalmente che è importante curare la nostra anima, ma finché questa comprensione non passa attraverso il nostro corpo, le nostre mani, la nostra fatica, rimane una conoscenza solo parziale, che non ci coinvolge nel profondo e che quindi difficilmente porterà dei cambiamenti concreti nella nostra vita.
Forse anche per questo i nostri genitori e nonni, che passavano molto più tempo a fare che a leggere e a studiare, erano in tante cose molto più saggi ed equilibrati di noi.
Antonietta
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